È stato un anno record, o quasi, per la temperatura della Terra. Come lo sono stati i precedenti e come, con ogni probabilità, lo saranno i futuri. La traiettoria per i prossimi decenni, al netto della variabilità naturale, è segnata e dipende dalla quantità di gas serra che abbiamo immesso nell’atmosfera nel secolo alle nostre spalle. Le politiche che attuiamo oggi faranno sentire i loro effetti in misura apprezzabile solo nel lungo termine.

Ma, al contrario di quanto potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, il 2020 è stato un anno che potremmo definire sonnacchioso sotto il profilo degli eventi estremi.

Disastri e costi

In base ai dati della National oceanic and atmospheric administration (l’agenzia federale statunitense che si occupa di oceanografia, meteorologia e climatologia), nel mondo il numero di uragani più violenti (di categoria 3 o superiore) è risultato pari a venti ossia quattro in meno rispetto alla media degli ultimi quaranta anni e l’energia complessivamente accumulata è stata stimata pari al 75 per cento di quella media.

Risulta positivo anche il dato relativo agli incendi delle superfici boschive. Se negli Stati Uniti le aree interessate sono state le più elevate da un secolo a questa parte, in Canada ed in Africa tropicale il fenomeno è stato molto più circoscritto del solito. Quello appena trascorso è dunque nel complesso tra gli anni meno attivi negli ultimi venti e in linea con la tendenza di riduzione delle zone interessate dal fenomeno in atto dagli anni Trenta del secolo scorso.

Veniamo ora ai costi economici. Swiss Re, uno dei principali gruppi mondiali di riassicurazione e assicurazione, ha pubblicato un preconsuntivo per l’anno appena trascorso dal quale si evince che i danni economici riconducibili a eventi naturali sono ammontati a 175 miliardi di dollari, intorno allo 0,2 per cento del Pil mondiale e il 13 per cento in meno della media del decennio precedente; la quota di perdite coperte da assicurazione è risultata del 43 per cento a fronte di una media del 35 per cento tra il 2010 e il 2019. 

Si è confermata anche nel 2020 la tendenza alla riduzione del numero di vittime di eventi meteorologici estremi, anch’essa in atto da svariati decenni. Hanno perso la vita a causa di siccità, temperature estreme, inondazioni, frane, tempeste e incendi 8.000 persone; nello scorso decennio erano state in media diecimila e 35mila per anno nell’ultimo mezzo secolo.

Le emissioni e la povertà 

Il 2020 si è rivelato un anno eccezionale anche per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica. La riduzione delle attività economiche a scala planetaria imposta dai governi per contenere la diffusione della pandemia ha avuto come effetto indiretto una diminuzione della quantità di anidride carbonica introdotta in atmosfera che non ha precedenti: il 6,7 per cento in meno secondo la valutazione di Global carbon project.

L’esperimento forzatamente non condotto sembra però difficilmente riconducibile a un’utopica “decrescita felice”. Le ricadute umane della contrazione dell’attività economica saranno assai pesanti. Secondo una stima di Brookings Institution, il numero di persone in condizioni di povertà estrema che si era ridotto da 1,9 miliardi nel 1990 a 650 milioni nel 2018, invece di contrarsi ulteriormente quest’anno come preventivato prima del Covid-19, subirà un forte aumento: scenderanno verosimilmente sotto la soglia della povertà assoluta 120 milioni di persone.

Se rapportiamo l’impatto economico sopportato alla riduzione delle emissioni conseguita, scopriamo che il costo per tonnellata di anidride carbonica non emessa risulta essere intorno ai 1.750 dollari per tonnellata, ossia un valore che è di un ordine di grandezza superiore alle stime più accreditate del danno che la stessa quantità di inquinante determina. Si tratta dunque di una cura che ha effetti collaterali molto maggiori dei benefici che permette di conseguire e che, dunque, un medico coscienzioso dovrebbe astenersi dal prescrivere.

Come per il Covid-19 tutte le altre scorciatoie si sono rivelate impraticabili e una sostenibile via di uscita sembra essere alle viste solo grazie alla scoperta del vaccino, così, per affrontare il cambiamento climatico, dovremmo puntare tutte le nostre risorse sull’innovazione tecnologica.

Dobbiamo trovare il modo che ci consenta di ridurre ulteriormente il costo di produzione delle fonti energetiche prive di carbonio e, soprattutto, di trovare soluzioni al problema della loro intermittenza senza scartare a priori e, anzi, moltiplicare gli sforzi per sviluppare altre opzioni già a nostra disposizione. Una è quella del nucleare, che ha un problema opposto a quello delle rinnovabili (tendenza dei costi ad aumentare anche a causa di eccessi di regolamentazione a fronte di una elevatissima affidabilità), ma c’è anche la geotermia profonda, oltre alla “cattura” delle emissioni anch’essa già oggi tecnicamente fattibile ma, come accadeva per fotovoltaico ed eolico solo pochi anni fa, con impiego ancora del tutto trascurabile e costi elevati.

È poi necessaria l’adozione di un meccanismo di carbon tax uniforme applicata a tutti i settori che consenta, da un lato, di tagliare nel breve periodo le emissioni laddove il costo è più basso e, dall’altro, di raccogliere le risorse necessarie per gli investimenti.

Altre strade non sembravano esservi se non quella di autoimporci un lockdown perenne ed accettarne le rovinose conseguenze che abbiamo sperimentato nell’anno trascorso.

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