Le migrazioni stagionali del bestiame tra le pianure e le montagne sono una delle pratiche più antiche del genere umano. La transumanza nel bacino del Mediterraneo e sulle Alpi è anche entrata, a partire dal 2019, nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco. Spostare gli animali su geografie lunghe, determinate dalle stagioni, è una delle cose che per prime ci hanno resi umani, e oggi è diventata una lente di ingrandimento per vedere come gli effetti della crisi climatica siano sistemici. In Italia i pastori sulle montagne cuneesi stanno affrontando lo spostamento degli animali verso le terre alte in uno scenario di ondate di calore e siccità. Coldiretti ha già lanciato l’allarme: c’è il rischio che molti decidano di rinunciare alla monticazione (il pascolo in montagna) o di scendere in anticipo a valle, perché non ci sono abbastanza acqua o erba per gli animali.

In Alto Adige, secondo un caso di studio segnalato da Rangeland Atlas (un progetto di collaborazione di Wwf, International Union for Conservation of Nature, Onu e altre istituzioni di tutela dell’ambiente), queste rotte, che risalgono in alcuni casi a 40mila anni fa, da anni sono progressivamente meno frequentate, perché la montagna alle quote degli alpeggi d'estate è sempre meno ospitale e più pericolosa, soprattutto per gli animali, a causa della costante oscillazione tra caldo ed eventi estremi.

In Italia per i pastori si aggiunge anche il ritorno dei grandi carnivori, lupi e orsi. Lentamente, in questo modo spariscono davanti ai nostri occhi storia, storie, usi civici: senza continuità tra gli anni queste pratiche sono destinate all'estinzione, e andare in alto diventa ogni anno più difficile e imprevedibile.

Manca l’acqua

Però è dall’Africa che arrivano le storie più istruttive di cosa fanno i cambiamenti climatici alle antiche pratiche pastorali: li trasformano nell'arco di decenni in guerre settarie. Una ricerca uscita a fine 2021, realizzata dalla Tufts University e da Harvard, ha analizzato i conflitti interreligiosi nell’Africa a sud del Sahara tra il 2000 e oggi, il ventennio in cui sono esplosi, e ha scoperto che il modo migliore per comprenderli non era guardare ai testi sacri, all'intolleranza e all'indottrinamento, ma alle rotte del bestiame e ai pattern delle precipitazioni.

In Mali, per esempio, la transumanza è una forma molto radicata di simbiosi, come quella che genera un lichene dalla collaborazione reciproca tra un'alga, che prende la luce grazie alla fotosintesi, e un fungo. Il «lichene transumante» africano funziona in modo simile attraverso le stagioni: i pastori collaborano con i contadini, che concedono loro le terre coltivate durante la stagione secca, aspettandosi che le lascino durante quella delle piogge, per la semina.

Ha funzionato così per migliaia di anni, finché la pioggia non è cambiata. In Sahel, la fascia di territorio trasversale all’Africa che si trova a sud del deserto del Sahara, ha piovuto di meno rispetto alle medie attese in 36 degli ultimi 47 anni.

Niente che non fosse previsto dalla scienza del clima: il riscaldamento globale sconvolge la frequenza delle precipitazioni e la siccità è uno dei suoi effetti più prevedibili. Le siccità ci sono sempre state nella storia umana, ma con 420 parti di CO2 per milione in atmosfera diventano più intense, più frequenti e più lunghe. Niente che ormai non sappiano i contadini della Pianura Padana.

Guerre settarie

In questi decenni senza pioggia, i pastori del Sahel hanno smesso di capire il cielo, gli orologi biologici della transumanza sono impazziti e li hanno spinti ad anticipare gli spostamenti. È un cambiamento di abitudini dagli effetti sociali visibili sul larga scala: da noi la transumanza potrà essere un’attività residuale, in Africa subsahariana il 22 per cento del reddito viene dagli animali e il 43 per cento della massa terrestre è usata per attività pastorali, in prevalenza secondo metodi tradizionali come la migrazione stagionale degli animali.

La crisi climatica si evolve in jihad perché la maggior parte degli agricoltori sono cristiani, la maggior parte dei pastori sono musulmani, e la scarsità di risorse (terra e acqua) causata dal riscaldamento globale diventa competizione, la competizione diventa odio e l'odio diventa conflitto.

Come sanno bene gli sceneggiatori, però, ogni conflitto ha bisogno di una origin story culturale, e quindi i 36 anni di siccità si sono tradotti in un aumento della frequenza e dell'intensità delle guerre di religione tra gruppi etnici locali. Si scrive guerra, si legge clima: la conclusione dello studio di Tufts e Harvard è che i progetti internazionali di cooperazione allo sviluppo hanno effetti minimi su questi conflitti, l’unico tipo di misura che ha dimostrato di funzionare è l'inclusione dei pastori all'interno dei processi politici.

Nei paesi dove hanno rappresentanza e diritto di parola, i conflitti climatici non evolvono quasi mai in odio settario: un'applicazione locale efficace dell'idea di giustizia ambientale.

© Riproduzione riservata