Da ieri, Giornata mondiale per l’ambiente, l’Italia ha il suo primo contenzioso climatico. Non è un’iniziativa simbolica, una di quelle cose lanciate per fare sensibilizzazione o semplice rappresentanza, ma una concreta via giuridica e politica per stanare le istituzioni, come dimostrano i casi francese, tedesco, olandese.

Un gruppo di 203 soggetti tra associazioni e cittadini, coordinati dalla onlus A Sud, ha citato in giudizio lo stato italiano per la sua lentezza nell’intervenire sull’emergenza climatica. Ci sono i Fridays for future, c’è la Società meteorologica italiana guidata da un personaggio noto e moderato come Luca Mercalli, ci sono anche 17 minorenni.

La causa è stata presentata al tribunale civile di Roma, lo stato dovrà costituirsi in giudizio con l’avvocatura generale, la prima udienza è fissata per il 4 novembre. Questi i dettagli legali, poi c’è la sostanza politica.

L’iniziativa si chiama Giudizio Universale, è frutto del lavoro di tre anni ma arriva proprio mentre la credibilità ecologica del governo di Mario Draghi è già entrata in crisi, dopo l’ondata di critiche a un Pnrr fiacco dal punto di vista ambientale, l’antologia di report che da ogni fronte ne sottolineano vuoti e mancanze («il peggior piano europeo sul clima», secondo il Green recovery tracker) e perfino i rimbrotti pubblici a mezzo intervista di John Kerry al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e alle sue mappe di gasdotti.

Lo stato sa e non agisce

Il presupposto giuridico del ragionamento dietro Giudizio Universale è questo: le istituzioni italiane continuano a tirarsi indietro rispetto all’azione climatica, pur essendo a conoscenza della drammaticità dell’emergenza. Nel dossier ci sono i numeri del centro studi Cimate Analytics, ma anche quasi due decenni di dichiarazioni e atti di indirizzo del parlamento, ci sono i rapporti di enti pubblici come Ispra sulla specifica vulnerabilità dell’Italia.

Quello tra economia, clima e diritti è un collegamento che secondo l’avvocato del team legale Luca Saltalamacchia «viene accettato e rimarcato dallo stato italiano», che però da un lato annuncia in ogni sede possibile scenari di crisi e dall’altro si comporta, di governo in governo, come se quella crisi non esistesse.

Dentro l’invocazione verso la responsabilità dello stato c’è una denuncia nei confronti della politica. Al di là dei presupposti legali, è il contesto europeo la vera forza di Giudizio Universale. Il 29 aprile la Corte costituzionale tedesca ha dato ragione a un gruppo di cittadini e attivisti: la legge sul clima del governo violava i diritti delle generazioni future.

È stato un terremoto, Angela Merkel ha messo di corsa in cantiere una nuova legge, più incisiva. Prima c’erano state le storiche vittorie in Francia e soprattutto Paesi Bassi, primo paese arrivato a sentenza in una causa del genere, anche qui a favore degli ambientalisti.

La fondazione Urgenda, che aveva promosso la causa olandese, ha fatto da tutor all’iniziativa italiana. Nel contesto c'è anche un’altra vittoria epocale, quella degli ambientalisti contro il piano di Shell, corretto al rialzo dalla una corte dell’Aia.

I tribunali stanno diventando uno spazio di azione climatica e da ieri tocca a quelli italiani, con lo stato che si troverà nella scomoda posizione di dover difendere le ragioni della lentezza di governo e parlamento o di provare a spacciarla per rapidità.

Imporre una soluzione radicale

La causa non prevede un risarcimento dallo stato, ma chiede al giudice di dichiararlo inadempiente e di imporgli una riduzione delle emissioni molto più radicale di quella in atto. L’obiettivo di Giudizio Universale è un taglio del 92 per cento rispetto ai livelli del 1990, da raggiungere entro il 2030, cioè tra nove anni e mezzo.

Se il contenuto della richiesta è quasi uno sparo alla luna, la strategia delle cause legali ha dimostrato negli ultimi anni di essere una via concreta per smuovere il sistema. Il problema, però, è che qui parliamo dei tribunali italiani: Giudizio Universale affida una richiesta in cui il fattore tempo è tutto alla giustizia più lenta d’Europa.

«Ci aspettiamo che il giudizio in primo grado termini dopo due o tre anni, altri due se viene fatto appello, il ricorso per Cassazione può prendersi fino a quattro anni», conferma Saltalamacchia.

È una visione più pessimista anche dei sette anni e tre mesi per una causa civile in Italia, secondo i dati del Consiglio d’Europa, un altro mondo rispetto ai due anni e quattro mesi tedeschi e i tre anni francesi. Si arriverebbe a una sentenza definitiva non prima del 2028, a due anni dalla soglia del 2030 e, ironicamente, dopo la fine del conteggio del climate clock che da due giorni è davanti al ministero della Transizione ecologica, sei anni e sette mesi per contenere l’aumento della temperatura entro i termini dell’Accordo di Parigi.

Insomma, in un paese come l’Italia la via giuridica al clima ha più senso come strumento di pressione politica che per i suoi esiti legali in senso stretto, i quali rischiano di arrivare quando ogni finestra di intervento sarà chiusa.

Tra i firmatari mancano le tre associazioni più importanti, Legambiente, Wwf e Greenpeace, che lasciano filtrare vicinanza, sostegno e supporto ma hanno scelto strade diverse.

È interessante la lettura di Greenpeace, per bocca del direttore Giuseppe Onufrio: «In Italia la politica dipende da alcune grandi aziende, è qui che la trasformazione trova resistenze e lo vediamo nel Recovery plan, al quale mancano solo nomi e cognomi per essere cucito su misura per loro».

Greenpeace è reduce dalla grande vittoria contro Shell in Olanda, «una causa che stiamo studiando da vicino anche in un’ottica italiana». Non lo si può ancora dire, ma presto potrebbe toccare ad Eni un processo sulla scia di quello olandese. «In ogni caso siamo complementari a Giudizio Universale, sono due strade diverse per gli stessi obiettivi». 

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