Fino a oggi per iscriversi ai congressi internazionali sulla protezione e la conservazione della natura i popoli indigeni erano addirittura costretti a registrarsi come ong, cosa che in generale veniva rifiutata con sdegno e che finiva col silenziare ulteriormente una delle voci più autorevoli sulla possibilità di convivenza equilibrata tra esseri umani, flora e fauna.

C’è voluta una lunga battaglia politica e simbolica per cambiare questo offensivo intoppo burocratico, ma all’Assemblea generale dell’Iucn (International Union for Conservation of Nature) che parte il 3 settembre a Marsiglia ci saranno, oltre a 217 stati, 18mila esperti, 1.400 ong, anche i rappresentanti di 23 popolazioni indigene. È un piccolo e promettente passo in avanti, che serve però anche da spia accesa su un conflitto più ampio, che da decenni si combatte intorno alle aree protette e alla loro conservazione: per chi viene fatta? A danno di chi? Con la voce di chi?

Le popolazioni indigene (stimate tra 370 e 500 milioni di persone) occupano il 20 per cento delle terre emerse. Sulle loro terre vive l’80 per cento della biodiversità terrestre. Eppure solo il 5 per cento delle aree protette e meno dell’1 per cento dei fondi per il clima sono gestiti da queste comunità.

Il tema è enorme e generalmente trascurato: sembra già una sfida così improba evitare una sesta estinzione di massa che in pochi si preoccupano anche delle vittime collaterali e delle comunità che da un secolo vengono travolte e a volte spazzate via nel processo. Per questo motivo a Marsiglia in questi giorni c’è anche un contro-congresso, intitolato Our Land Our Nature, il cui scopo è rappresentare la voce di tutti popoli indigeni (dei quali i 23 invitati ufficialmente sono una piccola rappresentanza) e sfondare la conservazione fortezza, come viene definito il modello attuale per la protezione di animali ed ecosistemi: una visione bianca, occidentale, armata e soprattutto coloniale, che forse è giunto il momento di mettere in discussione.

Raddoppiare le aree protette

All’evento principale Iucn di Marsiglia si discutono policy e raccomandazioni, si divulga la scienza e si prova a farla incontrare con la politica, in vista della Cop di Kunming in Cina (equivalente di Glasgow ma sulla natura) e del cosiddetto orizzonte 30x30: l’obiettivo di portare le aree protette al 30 per cento della superficie terrestre entro il 2030. Significa quasi raddoppiarle rispetto al punto in cui siamo oggi (16 per cento), il tema che solleva il contro-congresso indigeno di Marsiglia è esattamente questo: a chi verranno tolte queste terre? Che diritti verranno riconosciuti? Come si svolge questo processo?

L’idea di una visione indigena della conservazione ha impiegato quasi mezzo secolo a farsi strada, ma ora anche il relatore speciale dell’Onu su diritti umani e ambiente David Boyd ha messo il dito sui fallimenti del modello attuale e ha sottolineato il bisogno che la nuova visione per il decennio appena iniziato sia basata anche sul rispetto dei diritti umani. «Tutelarli è un obbligo secondo la legge internazionale ed è anche un ottimo sistema di costi-benefici per proteggere la natura», si legge nell’ultimo policy brief ufficiale dell’Onu. È praticamente una rivoluzione.

«La creazione di aree protette è stata uno dei grandi fattori storici di land grabbing in Africa e in Asia», spiega Fiore Longo, antropologa e responsabile della campagna conservazione di Survival International, una delle organizzazioni che più di battono per decolonizzare il nostro rapporto con la natura: «Per proteggerla sono stati realizzati veri e propri furti di terra legalizzati» è il loro punto di vista. Il modello attuale nasce nella seconda metà del XIX secolo, quando sono stati creati i grandi parchi americani, Yosemite e Yellowstone, istituzioni fondate sull’espulsione dei nativi che li abitavano: così è stata creata la fortezza verde, modello poi esportato nelle grandi aree naturali dell’Africa e dell’Asia: «Il concetto di base nei parchi creati da inglesi e francesi nel secondo dopoguerra era salvare l’Africa dagli africani e l’Asia dagli asiatici», aggiunge Longo. Nessuna attività economica a parte il turismo sarebbe stata consentita, in virtù dell’idea feticcio di incontaminato: dove c’è natura vera non ci sono umani e viceversa.

Le conseguenze sono state la rimozione delle comunità locali, la crisi delle loro attività rurali e pastorali, la militarizzazione dei confini dei parchi e relativi abusi dei diritti umani. Tutto in nome della scienza. Solo che nel frattempo la scienza stessa ha cambiato e raffinato la sua idea. Mentre il modello di protezione occidentale ha fallito tutti i 20 obiettivi di Aichi per il 2020, molte tra le poche aree dove ci sono stati dei miglioramenti erano quelle non «incontaminate» ma gestite da comunità locali, come sottolineato da un rapporto Fao della scorsa primavera sul Sudamerica.

«In Kenya esiste un unico ministero per il Turismo e per la Fauna. In questo e altri paesi africani continuiamo a coltivare l’idea che lo scopo finale della protezione degli animali sia il divertimento di stranieri bianchi ed estremamente ricchi», dice Mordecai Ogada, keniota, biologo, esperto in grandi carnivori e attivista contro quella che definisce «the big conservation lie», «la grande bugia della conservazione», come da titolo del suo libro uscito nel 2016 (Lens and Lens publishing). «Avete mai fatto caso a come l’esperienza turistica africana viene venduta in Europa o negli Stati Uniti? Non c’è mai nessun africano nelle brochure. Ci sono paesaggi stupendi, ci sono ovviamente gli animali, ma non ci sono le persone. Il fatto però è che le persone in Kenya ci sono, anche se tutto il marketing degli animali continua a suggerire il contrario».

Al netto dei risultati raggiunti nella protezione di alcune specie in alcuni paesi dal bracconaggio (mentre in altri è un disastro, per un rinoceronte è una fortuna nascere in Botswana, un disastro nascere in Sudafrica), è un fatto che il concetto della fortezza verde non sia stato molto aggiornato dal 1950, quando ex militari nel dopoguerra si riconvertirono alla tutela della natura, disegnando aree protette e progettando i parchi nel quasi totale disinteresse verso i bisogni delle persone che in quelle zone abitavano da millenni.

Intrattenimento per bianchi

Sono spesso spazi per il divertimento internazionale, protetti da guardie armate per le quali per decenni non c’è stata troppa differenza tra il gruppo di bracconieri che lavorano per il traffico illegale globale e i pastori che superavano i confini dei parchi alla ricerca di uno specchio d’acqua per il bestiame. «Le regole sono stati create in un’epoca pre-diritti umani e lì sono rimaste», conclude Ogada. «La lotta contro i bracconieri ha creato una sospensione permanente della legge, con una guerra a bassa intensità nella quale chi uccide un rinoceronte e chi raccoglie legna corrono lo stesso rischio di essere uccisi, senza processo e senza troppe domande».

L’obiettivo del contro-congresso di Marsiglia è ovviamente anche elaborare una contro-proposta a tutto questo, in una battaglia culturale prima che politica: promuovere una versione della giustizia climatica nel campo della protezione degli animali, nell’idea – ambiziosa al limite dell’utopico – che si possano unire lotta alle diseguaglianze e all’estinzione di massa. La prima chiave politica è il riconoscimento del diritto alla terra nel momento in cui si creano aree protette: secondo una ricerca pubblicata la scorsa primavera su Frontiers in Forests and Global Change la porzione di mondo che si può considerare incontaminata è ormai meno del 3 per cento, includendo il Sahara.

Il resto – comprese le terre che si andranno a proteggere – ha una presenza umana il cui destino non può essere considerato un danno collaterale. Coinvolgere attivamente le popolazioni native nella protezione paga: il popolo Soliga in India ha combattuto e vinto una lunga battaglia legale per il suo diritto a continuare a vivere all’interno di una riserva per tigri nel Karnataka. Risultato: le tigri stanno meglio, il loro numero è quello che è mediamente cresciuto di più di tutto il subcontinente.

«E dobbiamo spezzare il legame esistenziale tra turismo e fauna selvatica», conclude Ogada. Non significa vietare i safari, ma includere nella conservazione anche le persone e gli animali che ai visitatori non interessano: come il bestiame. C’è una miriade di problemi locali di accesso all’acqua, ai pascoli, all’erba, ognuno con soluzioni specifiche, che però non saranno mai risolte se non verrà aggiornata al 2021 anche la visione globale. L’unico modo per farlo è includere e ascoltare il quasi mezzo miliardo di persone interessate.

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