Gianni Cuperlo, dirigente Pd, risponde all’analisi di Marco Follini sulla genesi e le cause del populismo in Italia, pubblicata su Domani il 16 aprile

Caro Marco, ho letto il tuo ultimo articolo sulla crescita del populismo e mi proverò a commentarlo con una premessa. Che poi riguarda quella qualifica (Marco Follini, ex politico) che immagino tu abbia convenuto col direttore di questo giornale. Perché non usare la dizione “ex parlamentare” o pure “ex vice presidente del Consiglio”?  Se “politici” si è stati non si smette di esserlo perché a un bivio dell’età ci si dedica ad altro.

Tu parli degli anni Settanta (fine del boom, alta conflittualità sociale) come termometro di partiti inabili a forgiare quella che allora si chiamava una “democrazia compiuta”. Da lì una separazione tra il palazzo e la piazza che «l’intelligenza politica del momento non appare più in grado di amministrare».

La stagione delle riforme

Ma fu davvero così? Sul punto mi faccio forte di un’analisi di Stefano Rodotà (Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli 2011). A mettere in fila la serie di riforme che si dipana dall’anno fatidico, il 1970, sino a quasi la fine del decennio, quel che si concretizza è la più profonda modifica della costituzione materiale dell’Italia repubblicana.

Statuto dei lavoratori, attuazione dell’ordinamento regionale, maggiore età abbassata ai diciott’anni, revisione dei termini massimi sulla carcerazione preventiva, il divorzio, diritto del difensore ad assistere all'interrogatorio dell'imputato, legge sulle lavoratrici madri e sugli asili nido, riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, interruzione della gravidanza, chiusura dei manicomi e istituzione del Servizio Sanitario Nazionale… Le ultime tre varate nel 1978, l’anno più angoscioso del dopoguerra.

Quelle misure (riforme, appunto) non furono frutto del disarmo dei partiti, ma di un dialogo vivo con una società carica di spinte, umori e bisogni originati anche da movimenti dotati di una propria coscienza civile e politica.

L’altro corollario fu nella capacità delle culture politiche – quelle provenienti dalla Resistenza e dal compromesso costituzionale – di favorire uno sbocco legislativo per la domanda di modernizzazione che abbracciava economia, costume e società. Non poca cosa se pensiamo che parecchie tra le norme citate vennero approvate da schieramenti parlamentari più ampi delle sole maggioranze a sostegno dei governi in carica.

A mutare era il rapporto tra i movimenti, o le forme organizzate del civismo, e la politica dando così vigore a un’inedita, e purtroppo momentanea, “grammatica dei diritti”.

In questo senso però non sono certo che le frasi di Sandro Pertini dopo il terremoto irpino o l’intervista di Enrico Berlinguer sulla questione morale (sul Cossiga picconatore mi astengo) fossero i prodromi di un cedimento al populismo che ne sarebbe seguito.  

Tendo piuttosto a credere fossero la coda di quel tentativo generoso, per quanto costellato di limiti, che aveva saldato azione e identità dei partiti storici alle turbolenze di una società in rapida evoluzione. Ma allora, mi dirai, a cosa imputo l’irrompere del populismo?

La base del populismo

Potrei dirti esattamente alla sconfitta, per molti versi al suicidio, di quelle culture destinate da una data in poi (tra metà e fine anni Ottanta) a trasferire nel traguardo del governo l’orizzonte strategico, e personale, della loro iniziativa.

A quel punto le forze affacciate sulla scena, disancorate com’erano da valori e presupposti obbligati a una qualche coerenza nella strategia come nei comportamenti, hanno aperto un vaso di Pandora.

Tu  dici che “non sarà la classe dirigente a farsi mosca cocchiera come accaduto nel recente passato. Sarà il paese, tutto il paese, a decidere di sé e a spingere quella carovana verso nuove conquiste o verso più potenti ritirate”. La sorte del populismo sarà lo specchio dell’anima profonda degli italiani, “quella che da molti anni andiamo cercando”.

 Spero tu abbia ragione, ma non riesco a convincermi della possibilità che a fronte di una democrazia resa più fragile dagli effetti del populismo si possa ricostruire il tessuto di una democrazia partecipata, consapevole, matura, senza al contempo ridare spessore e profondità, autorevolezza e prestigio, all’identità di culture politiche capaci di interpretare il tempo.

 Non quello alle spalle, consegnato alle riflessioni di storici, scrittori, registi, ma il tempo da vivere e che senza una dimensione politica (politici si rimane!) difficilmente potrà vedere la luce.

© Riproduzione riservata