Volete conoscere tutte le possibili dimensioni della mascolinità tossica? Ve le trovate servite nell’intervista rilasciata all’edizione britannica di Men’s Health da Sir Bradley Wiggins, ciclista professionista assurto al ruolo di mito per la patria sportiva britannica dopo aver vinto nel giro di poche settimane il Tour de France 2012 e l’oro olimpico in occasione dei Giochi londinesi.

A dieci anni da quel momento magico il quarantunenne Wiggins – che, va precisato, di questo schema della mascolinità tossica è vittima – ha accettato di affrontare una lunga chiacchierata con Alastair Campbell, giornalista inglese noto soprattutto per essere stato spin doctor di Tony Blair e successivamente responsabile per la comunicazione del partito Laburista.

Pubblicata nel numero in uscita a maggio, l’intervista è stata dapprima anticipata per stralci e successivamente in formato integrale via web. Ne è emersa nella sua interezza la figura tormentata del campione, che dopo essere diventato un fuoriclasse dello sport mondiale ha sentito sempre più forte il peso della visibilità e della pressione mediatica. Ma soprattutto, per la prima volta, ha reso note le ferite di un passato che nei giorni dell’adolescenza è stato segnato da episodi, atteggiamenti e, soprattutto, persone che portano il sigillo della forma più deteriore di mascolinità.

Una vicenda, quella di Bradley Wiggins, che necessita di essere raccontata attraverso l’illustrazione di tre quadri. Tutti utili a spiegare quanto complessa sia la sfera dell’abuso maschile, e come la sua espressione sessualmente violenta ne sia soltanto l’espressione più eclatante.

Il sexual grooming

La parte dell’intervista che ha richiamato la maggiore attenzione mediatica è quella nella quale, in modo che alla lettura sembra risultare sorprendente per l’intervistatore, Wiggins confessa di essere stato vittima, all’età di 13 anni, di sexual grooming. Che è una fattispecie dell’abuso sessuale molto difficile da definire, anche perché non ne esiste una soddisfacente traduzione in italiano.

La formula che viene più di frequente richiamata nella nostra lingua è quella di ‘adescamento’. Che però risulta di modesta portata semantica, innanzitutto perché non fa trasparire un’intrinseca dimensione di plagio. Per gli studiosi di comportamento sessuale predatorio il sexual grooming è fra le forme più oblique e insidiose dell’abuso sessuale. Individuato dalla psicologa statunitense Anna Salter, consiste in un’azione di avvolgimento emozionale, intrisa d’indottrinamento e di pressione psicologica, e condotta nel medio periodo perché calato in una relazione di consuetudine fra abusante e abusato.

Il groomer plasma la persona abusata usando innanzitutto l’arma dell’influenza psicologica e giovandosi di una posizione di asimmetria a lui favorevole. A abusare sono in genere persone adulte, a scapito di soggetti in età adolescenziale, o soggetti portatori di un ruolo di autorità come può essere un istruttore o un allenatore.

Fattispecie, quest’ultima, in cui è incappato l’allora tredicenne Bradley Wiggins. Che nell’intervista non specifica fino a che punto si sia spinto l’abuso da parte di un suo imprecisato ex allenatore, ma comunque afferma di esserne stato profondamente segnato.

Il grooming è particolarmente insidioso perché mimetico, fatto di comportamenti che si muovono costantemente sulla linea di confine fra la liceità e l’illegalità, caratterizzati da una teoria di ammiccamenti, allusioni e strategie discorsive che creano uno sfondo vischioso della relazione in cui la vittima rimane intrappolata, con scarsa possibilità di sottrarsi e di denunciare. Anche perché la prima agenzia che dovrebbe raccogliere quel malessere, cioè la famiglia del soggetto abusato, è sovente l’anello più debole della catena.

Il disastro dei padri

Nel caso di Wiggins la debolezza del ruolo protettivo che la famiglia avrebbe dovuto esercitare è causata dal deficit della figura paterna. Che in questa storia è una figura da declinarsi al plurale, poiché sono due gli uomini che sono stati a fianco della signora Linda durante gli anni in cui il giovane Bradley cresceva e aveva necessità di protezione.

Il primo è Gary Wiggins, padre biologico di Bradley. Ciclista australiano di grande talento che purtroppo non è stato accompagnato dalla capacità di governarsi come atleta, Gary Wiggins ha abbandonato moglie e figlio quando Bradley aveva 2 anni di età. E li ha abbandonati in Belgio, a Ghent, dove aveva portato la famiglia per scelte di propria carriera. Quella di Wiggins padre è stata una vita estrema, terminata in modo tragico.

Quanto al modo estremo di condurre la vita da parte di Wiggins padre, è Wiggins figlio a essere esplicito nel corso dell’intervista: «Era un alcolista, maniaco depressivo, abbastanza violento e prendeva un sacco di anfetamine e altri farmaci anche a scopo sportivo». E a precisa domanda sull’eventualità che Gary avesse comportamenti violenti verso la moglie, Bradley risponde affermativamente.

Aggiungendo però che, nonostante quelle violenze subite e l’abbandono, la signora Linda ha continuato a idolatrare il marito e a plasmarne una narrazione positiva a beneficio del figlio. Mascolinità tossica ma apologetizzata, praticamente un danno stratificato. Relativamente alla morte tragica di Gary Wiggins, essa è avvenuta in circostanze non chiare dopo che Bradley era già diventato un’icona del ciclismo mondiale. Al termine di una notte di eccessi alcolici con rissa e pestaggio, Wiggins padre è stato ritrovato cadavere.

L’autopsia ha stabilito che a essergli fatale è stato un colpo alla testa, ma non è stato possibile stabilire se quel colpo sia stato inferto durante il pestaggio subito nel locale pubblico da cui era stato cacciato andandosene sulle sue gambe, o se sia stato conseguenza di una successiva caduta dopo che era rimasto da solo in strada.

Un padre tanto mitizzato quanto assente (salvo riapparire dopo che il figlio era balzato in cima al mondo del ciclismo internazionale), certamente non un soggetto presso cui cercare riparo in presenza di un abuso sessuale.

L’altra figura paterna che fa segnare un deficit nella vicenda personale di Bradley Wiggins è quella di Brendan, il partner cui Linda ha deciso di legarsi per dieci anni e dal quale ha avuto un altro figlio. Brendan avrebbe potuto essere il primo destinatario della richiesta di aiuto da parte di Bradley per la vicenda di sexual grooming. E invece no.

Perché, oltre a mostrare scarsissima empatia verso il figliastro e a mostrarsi anch’egli violento, Brendan lo denigrava proprio sul piano dell’identità sessuale, dandogli del ‘finocchio’ (faggot, come dice Bradley nell’intervista) perché il ragazzo indossava gli indumenti in lycra che vengono usati nel ciclismo.

Altra mascolinità tossica, espressa in una fase che vedeva un ragazzo adolescente fortemente sotto pressione su un piano che riguardava non soltanto la propria autodeterminazione sessuale ma anche l’integrità personale.

Il malinteso vincolo del silenzio

La risposta di Bradley a tutti ciò? “I buried it” (“Ho seppellito tutto quanto”). Nascondere il più lontano e nel profondo possibile, rimuovere, non nominare. Si tratta della reazione più frequente, praticamente univoca e adottata per le ragioni più svariate.

In molti casi si opta per questa scelta perché si ritiene, da figli e figlie, di non dover far scadere nel senso di colpa le famiglie che ciecamente si sono fidate di quell’allenatore o di quel mentore. Ma molto conta un malinteso vincolo del silenzio che è una regola non scritta nel mondo dello sport, e che trova nel luogo dello spogliatoio una dimensione oscura, sottratta a qualsiasi controllo.

Specie nella sua versione maschile, lo spogliatoio è uno dei luoghi più ambigui che sia dato conoscere. Un’isola della maschilità tossica dove essa è non soltanto lecita, ma addirittura rivendicata. Al punto da diventare un vincolo di malintesa lealtà anche per chi la subisca.

Questo è forse l’elemento più preoccupante in un quadro dove gli accenti di gravità non mancano: la maschilità tossica passiva, un’altra microfisica del potere. Da cui lo stesso Bradley Wiggins è rimasto irretito, se è vero che ha dovuto aspettare l’età di 41 anni e un congruo lasso di tempo dopo la fine della carriera agonistica per denunciare abusi subiti quasi trent’anni prima. Fino a che non si comincerà a eradicare questo segmento della mascolinità tossica, ogni opera di bonifica dell’abuso sessuale (nello sport come altrove) correrà a handicap.

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