Com’è vecchia la nuova maturità: la scuola come ginnastica di esami

La scuola italiana, scriveva Augusto Monti nel 1932, è una «ginnastica di esami», una lunga preparazione a quegli esami che si devono sostenere in gran numero, dopo la scuola, per accedere a quella «vita professionale e impiegatizia» così caratteristica dello Stato liberale e borghese. Rassegnato a questo dato di fatto, lo stesso Monti, dichiarato antifascista, esaltava il valore selettivo dell’esame di maturità, la cui difficoltà rappresentava un argine al dilagare della propaganda fascista, interessata soprattutto a far partecipare i giovani alle adunate e alla conferenze dei gerarchi. Povertà “educativa”? L’aggettivo è superfluo Nato con la riforma Gentile (1923) e con l’istituzione del Liceo, l’esame di maturità è il fine ultimo della scuola, il suo compimento, al punto che i programmi di insegnamento vengono sostituiti dai programmi d’esame. Fare il liceo, durante il ventennio fascismo, significa prepararsi all’esame di maturità. Sospesa durante la guerra mondiale, la maturità viene ripristinata nel 1952, con una fisionomia completamente rinnovata. Intanto perché si introduce un membro interno, e poi viene ridotto il programma d’esame a quello dell’ultimo anno di liceo, con alcuni cenni ai due anni precedenti. Nel 1969 è sufficiente un solo articolo di legge per cambiare radicalmente la natura stessa dell’esame, non più riservato esclusivamente ai licei: «A conclusione degli studi svolti nel liceo classico, nel liceo scientifico, nel liceo artistico, nell'istituto tecnico e nell'istituto magistrale si sostiene un esame di maturità» (D.L. 15 febbraio 1969, n. 9). L’esame consiste in una prima prova scritta (un tema a scelta su quattro tracce), seconda prova scritta o grafica (per i tecnici), colloqui su due materie su quattro indicate dal ministero, voto espresso in sessantesimi. Abbandono scolastico: il governo festeggia un successo fittizio È l’esame della generazione dei boomer, rimasto in vigore fino al 1997, quando diventa ufficialmente Esame di Stato. Da allora i cambiamenti sono stati molti, e mai troppo significativi. In questo il ministro Valditara non si distingue dai suoi predecessori che hanno voluto lasciare il segno: Moratti, Fioroni, Gelmini, Profumo, Fedeli e poi, a causa della pandemia, Azzolina, Bianchi… Le pedine da muovere sono sempre le solite: il numero dei commissari, il tipo di prove e la distribuzione dei punteggi. L’importante è mettere la firma sotto il decreto e far parlare di sé, visto che sembra proprio che la scuola sia ancora una «ginnastica di esami», come cent’anni fa. Affettività a scuola. Il dibattito a Roma per ribadire «la necessità di un cambiamento culturale» Qual è l’urgenza Il vero elemento di novità introdotto da Valditara con queste sue “Misure urgenti per la riforma dell'esame di Stato del secondo ciclo di istruzione” consiste proprio nel loro carattere d’urgenza, come se stavolta ci fosse davvero un bisogno impellente da soddisfare, un problema pressante da risolvere immediatamente. Viene da domandarsi da dove venga tutta questa fretta, quale sia la necessità impellente e inderogabile che lo ha spinto a cambiare il nome all’esame di Stato per continuare a chiamarlo con il nome che i boomer non hanno mai dismesso. È solo una botta improvvisa di nostalgia per gli anni Ottanta? O c’è qualche altro bisogno da soddisfare con la massima sollecitudine? Ma quale declino dell’educazione, a scuola troppa iniquità e ingiustizia Il sospetto, avallato dal comunicato stampa pubblicato sul sito del ministero del Merito e dell’Istruzione il 28 ottobre, è che il decreto sia soprattutto una reazione e una risposta alle proteste degli e delle studenti che durante l’estate hanno boicottato la prova orale, attirando con il loro gesto l’attenzione dell’opinione pubblica. Si è trattato di poche persone, si dice cinque, tutte maggiorenni e giovanissime, che si sono assunte la responsabilità di un atto di disobbedienza civile il cui valore non è stato ancora compreso appieno dai difensori della scuola democratica, ma sembra aver allarmato e indispettito il ministro, intervenuto in più occasioni, non per dialogare con chi chiedeva ascolto, ma per dichiarare ai quattro venti che avrebbe impedito proteste analoghe in futuro. “Merito”, “responsabilità” «Si tratta di una svolta importante, – si legge sul sito del ministero – con questa riforma ridiamo senso alla maturità restituendo valore a un passaggio decisivo del percorso formativo delle studentesse e degli studenti, riaffermando i principi del merito, dell’impegno e della responsabilità individuale. Per questo, dal prossimo anno non sarà più possibile boicottare la prova orale: chi farà volontariamente scena muta sarà bocciato». Non si capisce come sia possibile affermare quei principi semplicemente cambiando il nome all’esame e riducendo il numero dei commissari e delle materie, a scapito di alcune discipline che difficilmente troveranno spazio nell’esame finale. La maturità di Valditara: l’ossessione per rispetto e regole, ma niente donne È chiarissimo invece che gli studenti devono rimanere muti quando non sono interrogati. E che quando parlano non vanno assolutamente ascoltati. D’altronde, uno degli studenti obiettori, Enea Zenoglio, ha espresso il suo «rifiuto di una scuola incentrata solo sui voti, come se fossero solo i voti a doverci rappresentare», e ha denunciato «una scuola sempre più alienante, cieca ai bisogni degli studenti, con un’impostazione quasi ossessiva sul risultato, che ha perso di vista l’obiettivo di farci crescere come persone, di farci apprendere con piacere». Se davvero la scuola è ancora una «ginnastica di esami», il decreto Valditara non ne cambia lo spirito: aggiunge solo un nuovo e tristissimo esercizio di obbedienza.