Riuscirà Mario Draghi a domare la baraonda della politica italiana? Chi vivrà vedrà, ma è lecito aspettarsi molto da chi, quando era a capo della Banca centrale europea (Bce), è stato capace di domare una fiera ben più feroce: l’ortodossia monetaria tedesca. Serve, in fondo, una certa fibra per spuntarla contro la Bundesbank, la potente istituzione che l’economista Ulrike Herrmann ha lamentato essere «uno stato nello stato», indurita da decenni di vittorie contro le pressioni di Bonn.

La sopravvivenza professionale di Draghi non era per niente scontata. Lo strapotere della Bundesbank sembrava essere ormai travasato nelle pratiche della Bce, costruita proprio sul modello (e nel luogo) della sua omologa tedesca. È però sotto il mandato del presidente del consiglio incaricato che la Bce ha iniziato a smarcarsi dalla concezione tedesca della politica monetaria.

È grazie ai grandi duelli fra politica monetaria europea e preferenze tedesche, un grande classico che agitava la monotona città sul Meno, che il paradigma delle banche centrali come entità essenzialmente conservatrici è andato definitivamente in crisi. Nei libri di testo, le banche centrali (e la Bundesbank) sono infatti votate ad alzare e abbassare i tassi d’interesse in maniera quasi meccanica, mantenendo un modico di stabilità nel tasso d’inflazione e prevedibilità nelle crisi costi quel che costi. «Costi quel che costi», nel contesto del 2011, avrebbe significato la catastrofe per le finanze dei paesi indebitati. Draghi ha preferito l’obiettivo prettamente politico di considerare questo elemento. La Bundesbank, che leggenda vuole essere amorevolmente soprannominata «BuBa», si è invece sempre opposta a questa “politicizzazione”.

Amore sconfinato

Secondo Jacques Delors, «non tutti i tedeschi credono a Dio, ma tutti credono alla Bundesbank». Se ciò è vero, l’apostolo di questa divinità minore è indubbiamente Jens Weidmann, presidente della BuBa dal 2011. Il governatore, vent’anni più giovane di Draghi, è stato per anni la figura di punta nell’opposizione a «Draghila» (copyright del tabloid Bild). Già nel 2012 Weidmann manifestava esplicitamente i malumori riguardo la relativa debolezza della BuBa in seno all’Unione monetaria. Come dichiarato alla FAZ, «siamo la banca centrale più grande e importante dell’Eurosistema e abbiamo un’ambizione maggiore rispetto ad altre banche nel sistema». Tuttavia, pur fornendo quasi un terzo della capitalizzazione della Bce, la Francoforte tedesca ha diritto a un solo voto nel consiglio d’amministrazione della banca. E nella Francoforte europea, chi sostiene una politica più flessibile come Francia e paesi del sud gode di una maggioranza organica, a scapito delle posizioni tedesche.

Ma gli avversari di Draghi non si aggirano solo per Francoforte. Il banchiere centrale ha sempre avuto pochi amici anche nella Berlino politica, divenendo quasi subito il bersaglio preferito della Cdu. L’ostilità era totale e permetteva di mobilitare, anche dopo la fine del mandato, mondo economico e piccoli risparmiatori, élite e massa. I democristiani si oppongono infatti «la monetarizzazione della spesa fiscale», ovvero l’acquisto di titoli di stato dei paesi del sud, ma anche i tassi d’interesse sottozero. Questi ultimi, in particolare, sono sempre stati tacciati di danneggiare i correntisti tedeschi e di erodere i risparmi di una vita, soprattutto fra gli anziani. La Bce e Draghi, oltre che molti economisti di sinistra, si sono sempre difesi da quest’ultima accusa sottolineando le responsabilità delle politiche di austerity cara alla Cdu.

L’offerta di capitale finanziario non allocato in investimenti pubblici o consumi lo ha reso talmente abbondante da azzerare i tassi, danneggiando i piccoli risparmiatori e le banche tedesche. Che questo sia però causato da una precisa scelta politica non è mai stato accettato dalla destra tedesca. Proprio la scarsa ridistribuzione di capitale rende i cittadini tedeschi più vulnerabili a questo tipo di politiche, fornendo un’ampia riserva di rancore per forze politiche volenterose. Fin dal 2011 Cdu e Fdp (i liberali) hanno approfittato della grande copertura mediatica data alle politiche Bce, attribuendo i costi della propria politica economica a Draghi e lanciandosi in dure accuse personali. Da allora non è passato mese che qualcuno a Berlino non gli abbia imputato un «esproprio» dei piccoli risparmiatori tedeschi. Draghi, in tutta risposta, non ha mai risparmiato le critiche né al surplus commerciale tedesco né degli scarsi investimenti tedeschi su infrastrutture e capitale umano, entrambi elementi di squilibro nell’eurozona.

All’origine dell’euroscetticismo

In queste risse mediatiche la Cdu ha anche incolpato la Bce di alimentare un sentimento antieuropeo nell’elettorato tedesco, associando l’euro e le istituzioni europee allo sgretolamento dei risparmi bancari. La vera ironia è che la polemica dei conservatori per la politica della Bce è stata talmente ossessiva da diventare, infine, realtà. Alle elezioni europee del 2014 si presentò infatti un piccolo partito euroscettico, Alternative für Deutschland, cui la gran parte del programma era proprio incentrata su un rifiuto della politica di Draghi. Dopo sette anni di scissioni, espulsioni e un drammatico spostamento su posizioni xenofobe, l’odio per la Bce rimane forse l’unico fil rouge che lega il partito delle origini all’Afd di oggi. È forse per questo che Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze per metà del mandato di Draghi e appassionato guardiano dell’ortodossia fiscale, ha infine deciso di riappacificarsi con Draghi, cercando spesso di smorzare i toni della polemica fra Berlino e Francoforte.  

Certo, la pandemia fa sembrare queste dispute attuali tanto quanto le Crociate. Ma gli strascichi della polemica ancora si fanno sentire, con conseguenze forse inattese. A maggio 2020 la Corte costituzionale si è espressa contro l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce. Il caso era stato trascinato a Karlsruhe da ex esponenti della Afd e aveva portato i giudici ad ammonire che in mancanza di una giustificazione «credibile» per la misura, la Bundesbank avrebbe dovuto ritirare le proprie risorse dal programma d’acquisto. Il Bundestag, Cdu e Fdp inclusi, ha tuttavia espresso un rapido avvallo per il programma della Bce, permettendo alla banca centrale di continuare ad appoggiarsi al tesoretto tedesco. Weidmann, da parte sua, non è stato capace di riempire il vuoto lasciato da Draghi. Inizialmente favorito alla successione nella Bce, è rimasto vittima delle macchinazioni fra Berlino e Parigi ed è oggi condannato a ripetere sine die il ruolo dell’oppositore interno, questa volta ostile alla politica ambientalista di Christine Lagarde.

Il rancore, in ogni caso, non è sparito. In Germania Draghi è tornato alle luci della ribalta esattamente un anno fa, quando il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier lo ha insignito con la croce al merito federale. Ma il discorso di premiazione, nel quale il socialdemocratico e italofilo Steinmeier bacchetta i critici del futuro presidente del Consiglio, non lascia dubbi su chi, alla fine, l’abbia veramente spuntata.

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