Credere che la politica estera tedesca sia guidata esclusivamente da interessi economici è una semplificazione della realtà. Esistono svariati motivi dietro l’amore tedesco per la strategia Wandel durch Handel (cambiamento attraverso il commercio), primi fra tutti il rifiuto dell’opzione militare e considerazioni legate alla politica interna. 

Ma se da un lato è sbagliato credere che la diplomazia tedesca serva solamente gli interessi industriali nel paese, dall’altro è impossibile non notare quanto l’economia sia tornata al centro del dibattito strategico. Non c’è infatti discussione di politica estera che non tocchi la questione dell’idrogeno, la sostanza che più di tutte sembra essere destinata ad accompagnare l’Europa verso un futuro decarbonizzato.

Un consenso bipartisan

L’idrogeno è un combustibile che non emette anidride carbonica e creato tramite l’elettrolisi, una procedura che divide le molecole d’acqua in ossigeno e, per l’appunto, idrogeno. Il tipo di energia utilizzata nel processo ne determina il “colore”: l’idrogeno cosiddetto verde è prodotto utilizzando energie rinnovabili come l’eolico o pannelli fotovoltaici, mentre l’idrogeno blu (o turchese) utilizza risorse fossili come il gas.

Quest’ultima variante non è quindi completamente neutra, e viene per questo osteggiata da molti ambientalisti, prima di tutto i Verdi. Altri, soprattutto nella Bdi (la Confindustria tedesca) e think tank affermati come la Stiftung Wissenschaft und Politik, esaltano l’idrogeno blu come un’alternativa comunque meno inquinante di carbone e petrolio.  

Tutti i partiti politici, in ogni caso, concordano sull’importanza dell’idrogeno nella transizione ecologica. Secondo la stima di Frank Umbach, dell’università di Bonn, la Bundesrepublik utilizza circa 50 terawattora (TWh) di idrogeno all’anno, nel 2019 poco meno del 10 per cento della produzione elettrica tedesca.

L’idrogeno consumato potrebbe però raddoppiare entro il 2030 e superare i 1.800 TWh nel 2050, numeri abbastanza astronomici e di molto superiori alle capacità attuali. Già oggi Basf, il colosso tedesco della chimica, consuma circa un milione di tonnellate di idrogeno all’anno. Basta allargare il ragionamento al resto d’Europa e si capirà quanto sia irrealistico pensare che l’Unione europa possa diventare una “fortezza verde” completamente libera da import di energia.

Gli esteri nella strategia nazionale per l’idrogeno

L’industria tedesca è quindi assetata di idrogeno e incapace di soddisfare i propri bisogni in Germania. Ed è proprio qui che entra in gioco la politica estera. Dei quattro pilastri su cui si basa la diplomazia tedesca – proiezione culturale, multilateralismo, diplomazia economica e diplomazia ambientale – gli ultimi due sono stati mobilitati per rispondere all’imperativo di assicurare la sicurezza energetica dopo il completamento della Energiewende (svolta energetica).

La strategia nazionale per l’idrogeno, pubblicata nel giugno 2020 per coordinare gli sforzi nazionali in materia, aveva già indicato che Berlino avrebbe mobilitato le proprie relazioni nel vicinato europeo. Il piano, che prevede 9 miliardi di euro per la costruzione di impianti di elettrolisi, riserva ben 2 miliardi di investimenti infrastrutturali in Marocco e Ucraina. Quest’ultimo salterà all’occhio soprattutto ai nerd di politica energetica tedesca a causa della decennale polemica di Kiev e Washington riguardo Nord Stream 2 (NS2). L’investimento nell’idrogeno ucraino è in parte pensato come una contropartita per il gasdotto, progettato anche per aggirare il paese in conflitto con la Russia.

Dalla Russia con amore

Il partner più ambito dai tedeschi nella regione, tuttavia, rimane Mosca. Il sogno di rifornimenti di energia verde dalla Russia è uno dei numerosi tentativi con cui la Germania vorrebbe riavvolgere il nastro agli anni della cooperazione economica anteguerra.

L’idea tedesca consiste nel supportare l’ampliamento delle rinnovabili nel colosso eurasiatico, un paese in cui eolico e fotovoltaico tendono all’irrilevanza e che richiederebbe quindi lucrativi investimenti da parte delle aziende tedesche. La costruzione di nuovi impianti, in cui è coinvolta anche Enel Russia, richiederà anni: per questo si sta facendo strada anche l’ipotesi di utilizzare centrali idroelettriche e biomasse. L’idrogeno generato in Russia dovrebbe poi essere trasferito in Germania utilizzando proprio Nord Stream 2, giustificando quindi il costoso progetto anche in ottica ambientalista.

Esistono tuttavia due problemi in questa strategia. Il primo riguarda una debolezza di fondo di tutta la politica tedesca nei confronti di Mosca, cioè le difficoltà nel trattare con lo stato russo senza andare a rafforzare il sistema di potere putiniano. Persuadere l’oligarchia all’ombra del Cremlino a rinunciare alle rendite di gas e petrolio sarà un’impresa non da poco, e tenderà in ogni caso a riproporre lo stesso accentramento di risorse e potere in poche aziende controllate dall’élite al potere.

La seconda questione è lo scetticismo russo riguardo la produzione di idrogeno sul proprio territorio. L’idea di utilizzare Nord Stream 2 è stata accolta con scarso entusiasmo da Gazprom, che ha fatto notare l’assenza di studi di fattibilità riguardo l’utilizzo del gasdotto per il trasporto di H2. Un rappresentante dell’azienda, Aleksandr Iskov, ha invece proposto la costruzione di impianti di elettrolisi per idrogeno blu in Germania del Nord, che potrebbero essere alimentati proprio con il gas proveniente da quella e altre pipelines nel Baltico.

Anche per questo la preferenza tedesca fra idrogeno blu e idrogeno verde avrà un importante impatto geopolitico. Dove rapporti cordiali con la Russia garantiranno approvvigionamento del primo, il secondo dipenderà soprattutto dalla politica tedesca nel Mediterraneo occidentale.

„Eine Tante in Marokko“

L’altro grande recipiente di finanziamenti tedeschi, il Marocco, è considerato il candidato ideale per la produzione di idrogeno verde, creato partendo dall’energia solare. In mancanza di collegamenti elettrici fra le due sponde del Mediterraneo (anche se esiste un progetto a riguardo in Tunisia) bisognerà infatti ricorrere a produzioni in loco, una necessità spesso venduta come benefica anche per le economie locali.

Il regno ha anche il vantaggio di aver investito molto presto sull’energia rinnovabile e di essere un partner di riferimento per la Germania: il megaimpianto solare Noor è stato co-finanziato dalla banca di sviluppo KfW, che garantirà altri 300 milioni di euro per un sito di produzione di idrogeno verde.

Come per la Russia, tuttavia, esistono nodi politici che ostacolano il piano tedesco. La scarsità d’acqua in Marocco, ad esempio, potrebbe diventare una bomba a orologeria nel momento in cui il regno dovesse procedere con la costruzione di altri megaimpianti. Gli alti consumi di questi centri hanno già alimentato tensioni locali e potrebbero rendere meno sicure queste infrastrutture.

Per di più, questi investimenti andrebbero ad alimentare poche aziende parastatali, alle spese di piccole e medie imprese e dei cittadini privati, che in Marocco sono stati esclusi dal mercato delle rinnovabili. Infine, i rapporti fra Marocco e Germania non sono propriamente tranquilli. La critica tedesca nei confronti di Rabat, soprattutto per quello che riguarda la decennale occupazione del Sahara Occidentale, ha portato una dura crisi diplomatica fra i due stati, con ritiro di ambasciatori e isolamento dell’ambasciata tedesca.

Nessuna soluzione sempilice

Insomma, la ricerca di fonti stabili di idrogeno non offre soluzioni semplici, sia dal punto di vista tecnico che politico. Sia in Russia che in Marocco non sembra che la Germania sarà in grado di risolvere tensioni preesistenti utilizzando l’incentivo dell’export energetico.

L’impressione è anzi che la classe dirigente tedesca sembri preferire arenarsi a livello internazionale che intraprendere un serio cambio di paradigma economico. «Gli industriali tedeschi fanno di tutta l'erba un fascio: per la chimica il processo trasformativo è passare a una diminuzione della domanda, riciclo e riuso e passare per il resto alla bio-based plastics», spiega in tal senso Luca Bergamaschi, co-fondatore del think tank Ecco.

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