Si sa, sospirare “poteva andare peggio” vuol dire chiamare su di sé ulteriori sfortune. Difficile però dire altro se si guardano i dati sulla disoccupazione tedesca dell’ultimo anno. Se contasse solo questo numero, l’infarto della pandemia sembrerebbe nient’altro che un piccolo singhiozzo. Certo, rispetto al 2019 i disoccupati sono aumentati di quale un punto percentuale, raggiungendo quota 5,9 per cento. Viaggiamo però molto al di sotto della Grande Recessione di dodici anni fa, quando otto tedeschi su cento sono rimasti senza lavoro.

Imparare dal 2008

Come tutte le statistiche, anche questi numeri possono essere molto fuorvianti. Il mercato del lavoro tedesco è in tumulto, né più né meno del resto d’Europa. Ciò che rende il caso tedesco speciale è però la capacità del paese di salvaguardare milioni di posti di lavoro, senza blocchi ai licenziamenti o interventi diretti nel rapporto di fra datori di lavoro e dipendenti. L’arma segreta di Berlino, che poi tanto segreta non è, è la famosa Kurzarbeit, una misura molto simile alla cassa integrazione italiana. La misura garantisce ai dipendenti una percentuale piuttosto alta del proprio stipendio (fra il 50 e l’80 per cento) garantito anche di fronte a una diminuzione dell’orario di lavoro. I vantaggi di questa misura erano già stati identificati nel 2008, quando l’ultima, grande crisi economica aveva reso necessario che tutti lavorassero di meno affinché le aziende non dovessero licenziare nessuno. Come in molti altri casi, i numeri della pandemia hanno però eclissato qualsiasi altro intervento economico. L’Istituto per la politica macroeconomica (Imk), vicino alla fondazione dei sindacati, ha calcolato che la cassa integrazione tedesca ha salvato circa 2,2 milioni di posti di lavoro, oltre a essere stata contratta da almeno 6 milioni di lavoratori ad aprile 2020 (un milione in più rispetto all’Italia). Si tratta di una platea sei volte più grande rispetto a quella toccata dalla Grande Recessione. A detta degli esperti, il mercato ha  soprattutto beneficiato della prontezza del governo nel facilitare l’accesso ai fondi da parte delle aziende. Il ponte concepito per portare lavoratori e imprese al di là del baratro economico ha funzionato.

Degli aiuti molto selettivi

Questa è indubbiamente una buona notizia – ovviamente solo nella misura in cui la situazione di partenza possa essere considerata soddisfacente. In una prospettiva a lungo termine, infatti, il Covid-19 rappresenterà solo una sfida minore per un mercato del lavoro sempre più claudicante. Per capire le criticità del sistema tedesco basta osservare gli aspetti in cui il grande piano di salvataggio ha funzionato meno bene. Se infatti la Kurzarbeit è stata fondamentale per soccorrere gli attivi nell’industria manifatturiera e pesante, l’apparato ha mostrato delle evidenti difficoltà nel supportare autonomi e precari. Questo è un problema piuttosto grande per il paese che, come si compiaceva l’ex cancelliere Gerhard Schröder, vanta il “settore a bassa retribuzione più grande d’Europa”. Della Kurzarbeit non può infatti godere quasi nessuno nel variopinto assortimento di contratti precari (i cosiddetti “Minijobbers” con contratti a termine e con contributi bassissimi, ma anche alcuni lavoratori a salario minimo), che in ogni caso sono raramente sindacalizzati e non possono quindi negoziare piani d’emergenza adeguati per evitare esuberi. Le partite Iva hanno subito un destino ancora più paradossale – non essendo dipendenti, non avrebbero potuto godere di molte delle misure patteggiate fra governo, sindacati e governo. La task force di economisti creata dal ministero delle Finanze, che ha coinvolto sia esperti vicini alla Confindustria (Bdi) che ai sindacati, ha quindi escogitato una serie di aiuti ad hoc, fra cui le famigerate Novemberhilfen. Peccato che molti di questi trasferimenti una tantum siano stati lentissimi, con alcuni professionisti rimasti a secco fino a marzo inoltrato.

Insomma, le misure tedesche sono state molto efficaci nel preservare il mercato del lavoro del 2019, creando le condizioni per un ritorno alla normalità. Le poche ferite subìte dai lavoratori hanno però evidenziato le cicatrici di un’architettura economica sempre meno sostenibile, sia in termini macroeconomici che umani. Sembra incredibile, ma nel 2020 non si è ad esempio assistito a una diminuzione degli straordinari, che lo Spiegel riporta aver raggiunto quota 1,86 miliardi di ore lavoro. A questo si aggiunge l’aumento di 3,5 milioni di Nebenjobs, i lavori secondari, con cui molti dei precari sopracitati provano a tenersi a galla. Il dejà-vu è fortissimo anche se ci si concentra sul settore della gastronomia, dove incombe una pericolosa penuria di lavoratori. La categoria, bistrattata durante la crisi e comunque mal pagata in partenza, è stata infatti un ricco bacino di assunzioni per le grandi catene di supermercati come Edeka, Rewe e Aldi. La penuria di forza lavoro era già stata denunciata dalle imprese nel 2018-19, quando l’anemica crescita del Pil preannunciava una lunga agonia del modello di crescita tedesco. Come denuncia il giornalista economico Andreas Nölke, questo era soprattutto dovuto alla riluttanza dei datori di lavoro attivi sul mercato interno (quindi servizi, catene di negozi e ristorazione) a pagare stipendi dignitosi.

Il futuro del lavoro

Non sorprende quindi che i primi mesi del 2021 abbiano posto al centro del dibattito politico il rinnovamento del lavoro post-Covid. Da un lato era inevitabile che la campagna elettorale innescasse nuove discussioni sulle categorie che hanno sofferto di più durante il lockdown; dall’altro, urge da anni un serio progetto per riformare il motore dell’economia tedesca. Gli stipendi bassi per i lavoratori al di fuori della filiera dell’export, il precariato e la scarsa considerazione per gli autonomi è una diretta conseguenza delle riforme dei primi anni 2000. All’ora si pensava che comprimendo il costo del lavoro in Germania, le aziende esportatrici (con dipendenti ben remunerati e sindacalizzati) avrebbero goduto di un maggior potere di acquisto in Germania, mantenendo un vantaggio competitivo all’estero e arricchendo l’intera economia nazionale tedesca. Ma la dipendenza dall’estero in tempi così turbolenti ha reso la bonaccia nel mercato del lavoro un pericolo esistenziale per l’industria tedesca, già avviata verso la crisi a causa dell’avvento della macchina elettrica. Non è un caso che nel pieno della pandemia si sia consumata un’importante battaglia fra sindacati e governo sulla rottamazione. La speranza dei metalmeccanici e delle industrie automobilistiche era che parte degli aiuti di stato favorissero l’acquisto di automobili in Germania, andando a compensare la scarsa la domanda “organica”. Solo l’opposizione del Spd al governo e degli ambientalisti ha impedito che il governo sovvenzionasse il motore a benzina e diesel.

Ciò non toglie che Berlino abbia di fronte un’opera titanica: riformare quei posti di lavoro industriali tutelati durante la pandemia e soccorrere coloro che il Covid-19 ha reso impossibile ignorare, dai lavoratori immigrati nelle macellerie ai braccianti nei campi di asparagi. Il ministero del Lavoro ha presentato una prima, modesta proposta che può essere considerata un “lessons learned” della crisi. Il paper propone l’abolizione dei Minijobs, il finanziamento di re-training e specializzazioni per lavoratori adulti, il diritto allo smart working, la creazione di un’assicurazione sociale pubblica per le partite Iva. La questione sarà un enorme tema nella campagna elettorale – ma la battaglia per il lavoro è appena cominciata.

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