Smettere di lavorare e vivere di rendita: Michael Bohmeyer non cercava altro quando ha lasciato la carriera nel mondo dell’informatica. Da allora però lavora più di prima, per far provare agli altri cosa significa ricevere soldi senza condizioni. Nel 2014 ha fondato a Berlino l’associazione Mein Grundeinkommen (“Il mio reddito di base”), che assegna a vincitori casuali un reddito incondizionato di mille euro al mese per un anno.

Oggi promuove l’”Iniziativa dei cittadini europei”: se entro settembre 2021 saranno raccolte un milione di firme la Commissione europea dovrà elaborare una proposta per introdurre il reddito di base nei paesi dell’Unione. E proprio agli effetti del reddito universale su larga scala Bohmeyer dedica il suo progetto più recente, ora nella fase preliminare. Più di due milioni di persone in tutta la Germania si sono candidate per partecipare. Insieme all’Istituto tedesco per la ricerca economica, all’Istituto Max Planck e all’università di Colonia, Mein Grundeinkommen ne ha selezionate 122, che riceveranno per tre anni 1.200 euro al mese senza condizioni – eccetto quella di far studiare il proprio comportamento. Lo abbiamo intervistato per capirne di più.

Finora 650 persone hanno ricevuto il reddito di base dalla sua organizzazione, e il numero dei beneficiari continua a crescere. Come mai l’attuale progetto pilota? Dubita ancora che il reddito di base sia una buona idea?

Negli ultimi anni abbiamo raccolto indizi in questa direzione, ma non ne siamo ancora certi. Ci sono stati studi simili in altri paesi, ma il reddito di base non è mai stato sperimentato in modo così esteso – non solo per i poveri o i disoccupati. Noi vogliamo scoprire se il reddito di base sia uno strumento utile per affrontare i problemi del nostro tempo: la trasformazione del mercato del lavoro, l’avanzata degli autoritarismi, la crisi ambientale. Dato che lo stato non se ne occupa, lo facciamo noi.

Più di 150mila privati cittadini finanziano il progetto di studio: chi sono?

Non so rispondere in modo preciso. Sono persone molto diverse tra loro. Molti sono convinti che il reddito di base sia una buona idea, altri non hanno un’opinione ben definita e perciò investono nella ricerca. Oltre il 90 per cento sono cittadini tedeschi, ma per il resto è un gruppo molto eterogeneo: ricchi, poveri, giovani, anziani.

I donatori sono anche candidati?

Non tutti. Del resto nella nostra cultura è forte l’idea che i soldi vadano guadagnati in qualche modo: altrimenti si è colpevoli. Tutti i beneficiari del reddito di base devono prima accettare di concedersi quei soldi. Penso che dal momento che ci impediamo di concederci qualcosa, ci risulta difficile riconoscere qualcosa agli altri. Dare e ricevere sono connessi: i beneficiari del reddito di base diventano socialmente più attivi.

In che senso?

Sentono di avere la propria vita in mano, per la prima volta. Affrontano la quotidianità con meno stress, dormono meglio, hanno migliori relazioni sociali. Nessuno diventa pigro, di solito sono tutti più impegnati di prima, anche se non in una forma di lavoro classica. D’altra parte la maggior parte del lavoro è non retribuito: come l’educazione dei figli o il volontariato.

Questa “socialità” ha però dei costi: come pensa sia finanziabile il reddito di base su larga scala?

In un mondo ideale tutti riceverebbero all’inizio del mese un credito di mille euro e alla fine del mese finanzierebbero questa stessa misura con le proprie tasse. La tassazione dipenderebbe dalle entrate, in ogni caso sarebbe più alta rispetto a oggi. Le persone avrebbero grosso modo gli stessi soldi che hanno ora, ma con la consapevolezza che quella base non può essergli sottratta.

Crede che questo “mondo ideale” sia compatibile con il sistema capitalista?          

Il reddito di base non è un’idea anticapitalista, ma fa qualcosa di nuovo all’interno del capitalismo: dà alle persone la libertà di dire no. Ci libera dalla retorica della “mancanza di alternative”. Con il reddito di base ci sarebbe per la prima volta un mercato del lavoro realmente libero, senza sfruttamento dei lavoratori. Si darebbe maggiore spazio all’ambito sociale, senza che sia antieconomico. Anzi, sarebbe positivo per l’economia.

In che modo?

In modo diverso a seconda dei settori. Ad esempio gli impieghi negli allevamenti di massa dovrebbero essere resi attraenti con stipendi molto più alti – salirebbe quindi il prezzo di alcuni beni, in questo caso la carne. Beni prodotti a mano o in modo ecosostenibile, per cui le persone lavorano con convinzione, sarebbero invece molto più economici. Al contrario salirebbero i prezzi dei prodotti fabbricati da macchine.

Le conseguenze economiche della pandemia alimentano ora il dibattito politico sul reddito di base, spesso promosso anche da forze populiste: vede un legame tra populismo e reddito universale?

Il reddito universale offre in apparenza una soluzione semplice a problemi complessi. Ma rappresenta l’inizio di un percorso, non la fine. I beneficiari del reddito di base devono decidere come usare i soldi senza sottostare a condizioni: è complesso. Non ci si può riparare dietro scuse economiche e si è costretti a confrontarsi con le contraddizioni della realtà. Un percorso che porta a essere più sicuri di sé e più fiduciosi. Il populismo fa l’opposto: approfitta della superficialità della gente e ne alimenta gli stereotipi.

Pensa che il reddito di base possa servire anche come arma politica per combattere gli autoritarismi?

Lo spero. L’avanzata dei regimi autoritari dipende in parte dal fatto che le persone oggi si sentono svalutate, vedono minacciato il proprio status quo. L’interrogativo è se la sensazione di sicurezza economica faccia sì che gli altri non siano più percepiti come oggetto di invidia o antagonisti. E se attraverso il sistema del reddito di base, uguale per tutti, si possa costituire un nuovo terreno comune, dove incontrarsi e confrontarsi.  

© Riproduzione riservata