La storia delle relazioni fra Cina e Germania è quella di un lungo addio. L’incontro del mese scorso fra Angela Merkel e il premier Li Keqiang avrebbe dovuto lasciare in eredità i presupposti di una futura partnership fra le due estremità dell’Eurasia. Ma più che la posa della prima pietra, la reazione all’evento è stata una lapidazione (politica).

Rapporto privilegiato

Mai come in su questo dossier si sono mostrate i limiti della politica estera tedesca, capace a stemperare tensioni ma assolutamente miope per quel che riguarda la costruzione di un rapporto di lunga durata. Il fallimento tedesco è, per una volta, evidentemente un insuccesso di Merkel.

Anche se i tentativi di salvare la relazione fra Europa e Cina sono soprattutto riconducibili alla coppia franco-tedesca, la cancelliera era stata da tempo individuata come principale sostenitrice di un accordo complessivo con Pechino. In teoria, l’operazione era perfino andata in porto, alla faccia di atlantisti, associazioni per i diritti umani, attivisti in esilio e scettici dell’ascesa cinese.

Il Comprehensive Agreement on Investment (Cai) siglato fra Ue e Cina era stato il culmine della presidenza tedesca a fine 2020 e sembrava aver finalmente ampliato su scala continentale i principi della politica tedesca – separazione fra politica e economia, Wandel durch Handel (trasformazione attraverso il commercio) e tanta, tanta pazienza su diritti umani e aggressività geopolitica. Ma la pazienza si è ormai esaurita, soprattutto al parlamento europeo. Il corpo legislativo, che dovrebbe ratificare l’accordo, ha votato con schiacciante maggioranza di mettere il Cai nel congelatore. 

In realtà i dubbi sulla buonafede cinese erano ormai diventati insormontabili anche nella Bundesrepublik. Le trattative commerciali, in ballo ormai da diversi anni, si erano concluse in un momento in cui è ormai divenuto impossibile ignorare le contraddizioni fra retorica e fatti. Questo non è tanto un giudizio morale quanto una constatazione di fatto: è difficile riconciliare le fiacche parole sui diritti dei lavoratori contenuti nell’accordo con la nuova legge tedesca che imporrà alle aziende di controllare che non si verifichino abusi dei diritti umani nelle proprie catene del valore.

Echi di Ostpolitik

La volontà tedesca di guardare oltre, di attendere che il paese imbocchi la sua strada verso la democrazia, sembra incomprensibile per gli europei che non sono cresciuti all’ombra della Ostpolitik. Il dialogo ininterrotto fra Germania Ovest e Unione Sovietica non era infatti solo un modo per mantenere il proprio avversario nucleare vicino, ma anche per scollegare interessi politici da quelli economici. La speranza, in questo caso, era impedire che la Germania e l’Europa venissero risucchiate in una Guerra Fredda 2.0, come l’ha definita il portavoce per affari transatlantici della cancelleria. Il difetto essenziale di questo modello è che, a differenza del secolo scorso, l’alternativa non è fra il dialogo e l’Armageddon nucleare.

Nessuno obbliga la Volkswagen ad aprire stabilimenti nello Xinjiang, dove si sta consumando un genocidio dalle dimensioni agghiaccianti. Dove la delicatezza con l’Unione Sovietica di allora (e la Russia di oggi) può essere ritenuta un’ipocrisia necessaria, è difficile idealizzare gli investimenti di giganti tedeschi come Basf, che costruirà uno stabilimento da 10 miliardi di dollari a Zhanjiang. È lecito dubitare che Nena avrebbe mai scritto 99 Luftballons sulla chiusura di uno stabilimento per macchine elettriche dall’altra parte del mondo.

L’erosione della vecchia strategia è stata accompagnata da qualche deciso scossone. Due, in particolare, hanno colpito la Berlino politica, ponendo fine all’ubriacatura degli anni del boom. Il primo è stato il caso Sabathil, un diplomatico tedesco divenuto lobbista ed ex ambasciatore Ue a Seul. A inizio dello scorso anno era infatti stata resa pubblica un’indagine dei servizi di intelligence tedeschi, che lo sospettavano di essere una spia per conto di Pechino. Le accuse sono poi ritirate a fine 2020. Sabathil, che fra le altre attività ha fatto opera di lobbying nelle istituzioni tedesche ed europee per conto di Huawei, è solo una delle tante figure del sottobosco della capitale che negli ultimi anni ha capitalizzato sulla linea di dialogo che lui stesso aveva aiutato a costruire. Che potesse essere sospettato di spionaggio (e che la sua carriera ne esca sostanzialmente distrutta) ha verosimilmente dato una svegliata a tutti quelli che ancora credevano di trovarsi nel periodo in cui i rapporti fra i due paesi potessero rimanere acritici.

Il secondo caso, che più ha allarmato il personale diplomatico e i Referent politici che incarnano i rapporti con la Cina, è quello del think tank MERICS, di cui molti membri sono stati sanzionati da Pechino perché dediti alla ricerca sul genocidio degli Uiguri. L’impossibilità di viaggiare in Cina, un paese ermeticamente separato dal mondo esterno, ha rovinato molte più carriere del caso Sabathil e ha toccato la comunità di accademici che aiutano Berlino a elaborare una politica informata. Insomma, è ormai evidente che le camere stagne nelle quali i tedeschi avevano voluto separare i tasselli della partnership – scambi accademici, rapporti economici, politica – stanno ormai collassando.

La linea del futuro

Anche se la leadership tedesca sembra ormai prossima ad abbandonare la linea merkeliana di dialogo, il nuovo senso d’urgenza non sembra permeare il pubblico tedesco. Le indagini statistiche condotte a fine 2020 da Kantar indicano che la linea neutralista in un eventuale conflitto fra Washington e Beijing rimane la via maestra per la maggior parte dei tedeschi. A maggio 2021, addirittura il 36 per cento dei tedeschi ritenevano che gli Stati Uniti fossero una minaccia maggiore della Cina per la democrazia in Germania. Lo scetticismo per il ruolo americano in questa contesa è abbastanza evidente anche in alcuni parti del personale diplomatico e ministeriale, che imputa l’avvento della nuova contesa più all’intransigenza americana che alle decisioni cinesi.

Ovviamente, questo vuol dire ben poco in ottica elettorale. Anzi, sia Cdu che Spd e Verdi sembrano ormai ben consci che una linea dura nei confronti della Cina sarà necessaria per mantenere un programma elettorale coerente. I Verdi portano nella campagna elettorale i toni con cui negli anni dell’opposizione si sono scagliati contro l’ipocrisia della grande coalizione, insistendo che la loro elezione rappresenterebbe una cesura anche nei rapporti con la Repubblica Popolare. La Spd vede nella sfida sistemica posta da Pechino la necessità di ammodernare la democrazia liberale e renderla ideologicamente competitiva, soprattutto sul fronte della meritocrazia. La Cdu ha forse l’approccio più articolato: cercare di ritorcere l’agenda dei Grünen contro loro stessi, imputando al loro scetticismo per il libero scambio con il Mercosur una concessione nei confronti dell’export cinese.

La linea cristiano-democratica paventa forse un’inevitabile verità macroeconomica. Da mercato di export sul quale compensare l’anemica domanda interna tedesca, la Cina si sta infatti trasformando in un formidabile rivale commerciale. L’export cinese è oggi pericolosamente simile a quello tedesco in quanto a prodotti, qualità, livello tecnologico e complessità – ma non prezzo, essendo molto meno costoso. L’industria meccanica tedesca rischia di fare la fine del settore tessile italiano, azzoppato dalla superiore competizione cinese. Se Berlino si accorgerà del pericolo, allora il sotterramento del Cai sarà solo l’inizio di un riassetto radicale.

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