Il cielo è nuvoloso sopra Berlino. Giochi di potere, rinnovamenti epocali e l’epidemia di Covid-19 stanno condizionando non poco il calcio tedesco, sia dentro che fuori dal campo.

La Mannschaft si avvia a un cambio storico: il commissario tecnico Joachim Löw lascerà la Federazione al termine dell’Europeo, dopo aver vinto il Mondiale del 2014 in Brasile, e verrà sostituito dal suo ex assistente Hansi Flick, che nel frattempo ha abbandonato la guida del Bayern Monaco dopo un anno e mezzo ricco di successi a livello nazionale e internazionale. Se la Nazionale si avvia verso un Europeo che non la vede favorita non va meglio alle squadre di club.

I conti in rosso e gli stadi vuoti causa pandemia hanno portato molte società a dover operare scelte al risparmio evitando di cadere in facili illusioni, come la Super League, lontane dalla tradizione calcistica tedesca.

Caos in Federazione

Un giudice come un altro. «Koch è uguale a Freisler». È stata questa la frase che è costata la sfiducia al presidente della Federazione Fritz Keller, licenziato dopo aver paragonato il vicepresidente Rainer Koch, rappresentante dei dilettanti, al giudice nazista Roland Freisler, presidente del Tribunale del popolo, dove emise circa 2.600 condanne a morte contro gli oppositori del Terzo Reich.

Il posto vacante lasciato da Keller, sfiduciato dall’assemblea e costretto alle dimissioni per evitare il giudizio del tribunale sportivo della federazione, è stato preso dallo stesso Koch e da Peter Peters, responsabile dei professionisti. Non è la prima volta che un presidente finisce nel mirino: il suo predecessore, Reinhard Grindel, si era dimesso dopo aver accettato un orologio di lusso ed essere stato denunciato per evasione fiscale mentre Wolfgang Niersbach e Theo Zwanziger erano stati entrambi cacciati a causa delle accuse di corruzione relative alla candidatura della Germania ai Mondiali del 2006.

Questo scomodo paragone è soltanto la punta dell’iceberg di una storia ben più grande, che ha coinvolto anche il dimissionario tesoriere Friedrich Curtius, di cui dovrà inevitabilmente occuparsi il prossimo presidente, che verrà nominato da un’assemblea plenaria a inizio 2022.

C’è infatti un conflitto latente tra i professionisti e i dilettanti del calcio tedesco intorno alle cifre del contratto base, che prevede un contributo della Lega professionistica (Dfl) agli amatori, che scadrà nel 2023. Il contratto attuale prevede che la Federcalcio tedesca (Dfb) conceda alla Dfl la possibilità di gestire la Bundesliga in cambio del tre per cento delle entrate che arrivano dai biglietti e dei proventi del marketing televisivo, limitati però a soli 26 milioni di euro l’anno.

Visto il valore del prodotto la Dfl dovrebbe probabilmente pagare molto di più: per questo già nel 2017 l’ufficio fiscale di Francoforte effettuò un accertamento presso la Dfb in quanto, come associazione senza scopo di lucro, stava implicitamente favorendo un suo membro. Per non perdere il suo status la Federazione vorrebbe un rinnovo a cifre più alte che però si prospetta particolarmente difficile.

La Bundesliga e il no alla Super Lega

«Cosa sarebbe una Super Lega senza i club tedeschi e il Paris St. Germain? Niente di eccezionale!» Una frase lapidaria quella che ancora a distanza di settimane dalla vicenda ha voluto rilasciare Karl-Heinz Rummenigge, amministratore delegato uscente del Bayern, in un’intervista a Kicker.

Oltre al club francese, l’assenza dei club tedeschi è stata una delle ragioni che ha certamente portato l’idea della Super Lega, a cui partecipavano 12 club continentali, a fallire quasi subito. Un’assenza che ha fatto rumore, le cui ragioni però sono legate alla storica partecipazione dei tifosi all’interno delle società.

Lo statuto della Lega professionistica prevede che i club tedeschi si debbano aprire all’azionariato popolare con una quota che può arrivare sino al 50 per cento più una quota delle azioni con diritto di voto. Ciò impedisce agli investitori esterni di ottenere una quota di maggioranza e di assumere il controllo completo.

Prendiamo il club più titolato di Germania e vincitore dell’ultimo titolo, la Meisterschale: il Bayern Monaco. All’interno del club sono presenti tre investitori esterni, come Adidas, Allianz e Audi che però hanno soltanto l’8,33 per cento delle azioni della società. Il restante 75 per cento è in capo alla casa madre, la Fc Bayern München e.V. (sigla che sta a indicare un’associazione registrata).

«Certo, ci sono gli investitori stranieri, ma non ce n’è uno solo che ha l’obiettivo di realizzare un profitto. In Inghilterra i proprietari dei club possono prendere una simile decisione da soli, in Germania no. Se una decisione del genere venisse presa a Dortmund o a Monaco, non ci sarebbero solo proteste il giorno successivo, ma anche la richiesta di convocazione di un'assemblea straordinaria», ha dichiarato Jan Lehmann, direttore commerciale del Mainz 05, club di Bundesliga, in un’intervista alla Deutsche Welle.

Il sistema però non è perfetto. Sono infatti in aumento il numero di club in mano a un singolo proprietario presenti nelle due serie professionistiche tedesche, la Bundesliga e la Zweite Liga, e in quelle semiprofessionistiche, come la 3. Liga e la Regionalliga. Il più importante al momento è certamente il Lipsia, arrivato secondo nell’ultimo campionato e gestito dalla Red Bull del magnate austriaco Dietrich Mateschitz.

La sua scalata è stata impressionante: in poco più di dieci anni il club dell’ex Germania Est è passato da un anonimo campionato di quinta serie alla lotta per il titolo e alla regolare partecipazione in Champions League. All’interno del club la regola del 50+1 è stata difatti aggirata: infatti il soggetto controllante, la RB Lipsia, dal 2014 si è aperto all’azionariato popolare ma il costo alto di ingresso (100 euro una tantum e 800 euro annui, il 1.233 per cento in più rispetto al Bayern) e la possibilità per la società di rifiutare qualunque adesione senza addurre motivazioni scoraggiano l’entrata. Ad oggi risultano affiliati soltanto 17 soggetti, una miseria rispetto al Borussia Dortmund, che ne conta oltre 133mila.

La crisi del Covid

Era inevitabile: gli stadi chiusi e la pandemia hanno inciso anche sul Fußball, aggravando soprattutto i conti delle società. Secondo un report pubblicato ad aprile, per la prima volta in 15 anni, nel 2019/2020 i ricavi totali della Bundesliga sono diminuiti del 5,4 per cento rispetto alla stagione precedente.

Dopo 9 anni di profitti, questo è perciò il primo anno in cui il bilancio totale della Bundesliga è negativo: 8 club su 18 hanno fatto registrare profitti (l’anno scorso erano 14), ma il saldo complessivo segna un passivo di 155 milioni (un anno fa il bilancio si chiudeva con un rassicurante +127). «Nessuno era preparato a una crisi così profonda. Negli ultimi 20 anni sono state gettate solide basi su cui si possono costruire sviluppi futuri, ma la pandemia costringerà i club a continuare ad agire finanziariamente in maniera ancora più oculata», ha dichiarato Christian Seifert, amministratore delegato della Lega calcio tedesca destinato a lasciare l’incarico nel 2022.

Anche per questo è stato varato un nuovo piano di redistribuzione degli introiti televisivi: lo scorso dicembre i club professionistici tedeschi hanno approvato il nuovo accordo quadriennale, in vigore dal prossimo campionato e dal valore di 1,4 miliardi di euro. Il più importante è certamente quello relativo ai diritti in lingua tedesca, che arriva fino a 1,1 miliardi di euro, strutturato in maniera molto egualitaria: sono infatti presenti una cifra standard, intorno ai 25 milioni di euro, e alcune parti variabili legate ai risultati, allo sviluppo dei giovani calciatori tedeschi o stranieri che militano da lungo tempo nel club e all’interesse degli spettatori.

Un tentativo di aiutare tutti i club in un momento difficile con cifre molto simili tra le squadre e contributi importanti anche per le formazioni della Zweite Liga. In fondo anche tra le nubi può sempre spuntare un raggio di sole.

© Riproduzione riservata