Il razzismo e l’antisemitismo sono ancora problemi con i quali la Germania deve fare i conti? «Si, certamente. La questione, però, è più complessa: il razzismo si manifesta in tanti modi e dobbiamo combatterli tutti». Ronya Othmann non cede mai alla tentazione della semplificazione, di rappresentazioni fatte di alternative secche. O questo o quello, o di qua o di là. Per lei è importante, piuttosto, questo e quello, provare a tracciare connessioni tra gli estremi. Anche se molto giovane – è nata nel 1993 a Monaco – cerca costantemente di evidenziare la complessità e le tante contraddizioni delle questioni che affrontiamo nella nostra chiacchierata.

Ronya Othmann è uno dei casi letterari di questi ultimi anni: con la sua storia “migrante”, originaria di una famiglia curda di fede yazida, è giornalista, i suoi interventi compaiono sulla TAZ e da qualche tempo anche sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, adora polemizzare – cosa che le riesce molto bene – e ha scritto un romanzo, Die Sommer pubblicato dall’editore Hanser. Va detto che in Germania le case editrici stanno facendo emergere questa pluralità della società tedesca: quello di Othmann non è il primo romanzo di questo tipo e non sarà l’ultimo. È la storia di una ragazza, Leyla, nata in Germania da papà curdo e mamma tedesca, che trascorre le sue estati nel nord della Siria, almeno fino a quando non scoppia la rivoluzione.

I curdi siriani erano stati privati, nella Siria di Hafiz al Assad, della cittadinanza, erano adschnabi, stranieri. Il papà di Leyla, senza cittadinanza, non ebbe la possibilità di studiare (cosa che avrebbe tanto voluto ma era vietata agli adschnabi) e attraversò il confine con la Turchia proprio nei giorni del putsch dei militari negli anni Ottanta per poi andare in Germania.

Dopo aver abbandonato la religione («ha sempre impedito un vero progresso») preferendole la politica, non ha mai smesso mai di sperare in un cambio di regime e nei diritti per i curdi. Ha vissuto di fronte alla televisione quasi come Giovanni Drogo nella Fortezza, in attesa di una notizia che possa farlo tornare in Siria. La sua delusione per l’esito della rivoluzione siriana è aumentato con la comparsa e poi la diffusione delle bandiere nere dello Stato islamico tra i manifestanti.

Tra due mondi

Tuttavia, il romanzo convince perché decide non tanto di descrivere una rivoluzione quanto il modo con cui Leyla si trova a cavallo di due mondi, sentendosi parte di entrambi o da entrambi rifiutata. A scuola, in Germania, prenderà una nota per aver chiamato la sua insegnante, che provava a spiegarle che la Siria fosse un regime autoritario ma non una dittatura, “puttana di Assad”.

Del resto per Leyla la dittatura è facile da definire: un luogo dove ovunque campeggiano foto del presidente. Quando pensa alle estati passate, Leyla pensa al suo villaggio, al suo campo abitato dai suoi gatti. Se in Siria a volte si annoia perché ognuno apre la porta ad ogni istante e non c’è mai un attimo in cui stare davvero da soli, in Germania fa fatica a rispondere alla nonna che le chiede: «Quando arrivano i vicini a bere il tè?» perché non crede sia possibile che la casa possa essere così vuota e silenziosa.

Mentre il padre dopo il lavoro non fa altro che fumare e vedere la televisione per mantenersi aggiornato sulla situazione nel suo paese, spronando la figlia a usare le opportunità che lui non ha mai avuto, Leyla è più distaccata, ha anche un legame complicato anche con la Germania, cerca di restare in equilibrio tra questi due mondi. A un certo punto litiga con il padre, arrivando a urlargli: «Almeno impara a parlare bene tedesco!».

Un conflitto generazionale che si rispecchia oggi nella società, dove l’obiettivo dei nipoti dei Gastarbeiter, i lavoratori ospiti a cui si deve la ricostruzione e il successo della Germania negli anni Sessanta, non è più solo essere accettati ma prendersi quello che gli spetta. Con un conflitto più complesso rispetto alle generazioni precedenti: si lotta per una Germania diversa ma si tenta di emanciparsi (anche) dalla propria realtà di provenienza, dalle sue contraddizioni e storture.

Se il padre è così ben descritto, tanto che sembra quasi di vederlo mentre fuma, guarda la tv e mangia semi, la mamma di Leyla, tedesca, è una figura evanescente, ben poco rilevante nel romanzo. Se non per il fatto che, proprio perché è tedesca, qualche cugina osserva malignamente che Leyla, in fondo, non può essere una vera yazida (dilemma poi risolto dalla nonna che le spiega che certamente lo è). Insomma, l’unica figura interamente tedesca sembra quasi passare per caso nel romanzo. «Non la vedo così. Volevo rappresentare il ricordo che una ragazza aveva del suo passato, perlomeno di una parte di esso», dice Othmann. «E in questo era fondamentale il ruolo del padre. La mamma l’ho immaginata come un’infermiera che ha avuto a che fare con il bombardamento con i gas fatti da Saddam Hussein contro i Curdi a fine anni Ottanta. Esperienza che l’ha segnata. Lei è la vera nemesi del padre, lui vive nel passato, lei non parla di quell’esperienza ma ha un atteggiamento molto pragmatico. E resta al fianco del marito, la stessa Leyla non sa perché».

La biografia di Othmann viene fuori in ogni pagina ma quando le si chiede se è religiosa, se ha una sua fede, ancora una volta ci pensa un po’ e poi risponde con un sorriso imbarazzato: «La questione è complicata. Sono una persona religiosa, per me la religione è parte di una storia della quale faccio parte. Credo, però, che società così complesse possano ritrovarsi solo su un fondamento laico, che dia a tutti il diritto di credere ma conservi una sua neutralità».

Certo, è più semplice a dirsi che a farsi, ma lei non nasconde la difficoltà della questione, la sua non è una critica radicale, è piuttosto un modo per non enfatizzare il ruolo della religione, perché ha visto come la sua famiglia sia stata messa in pericolo proprio dallo Stato islamico e dai fanatici.

Vecchi e nuovi razzismi

Torniamo allora alla Germania, ad Almanya, come la chiama Leyla insieme a tante altre persone con una storia migrante mediorientale. Che paese è oggi? «Da tempo, perlomeno dai Gastarbeiter questo è un paese plurale, multireligioso e multietnico. Questa pluralità, però, solo da poco è stata davvero oggetto di dibattito e discussione: per troppo tempo non si è discusso delle sue potenzialità ma si è anche scelto di negarne i conflitti, preferendone l’immagine romanzata dell’incontro pacifico tra diverse culture».

Othmann è in prima fila nel contrastare l’idea che esistano due società, quella dei tedeschi e quella dei migranti, un’immagine propria delle nuove destre tedesche ma spesso fatta propria anche dagli stessi tedeschi con una storia migrante. Anche qui le cose sono più complesse ed è esattamente quello che diceva sul razzismo: queste due mondi sono più porosi di quanto possa sembrare.

Ad esempio, ha polemizzato di recente con Kübra Gümüşay, autrice di un altro bel libro, Sprache und Sein, meritoriamente tradotto in italiano dall’editore Fandango.

Ad avviso di Othmann, Gümüşay lamenta, giustamente, il razzismo che proviene da parte della società tedesca ma non vede quello che viene da parte di partiti e singoli, ad esempio, dalla Turchia, persino in Germania: «Cosa distingue i nazisti tedeschi dai Lupi grigi turchi, tra le organizzazioni di destra più numerose operanti in Germania? Entrambi sono nemici della democrazia e dichiaratemene antisemiti. Oppure prendiamo i morti di Hanau che i nazionalisti turchi hanno provato a strumentalizzare e che lo stesso Erdoğan usa per proporsi come il protettore dei turchi in Germania. Certo c’è il razzismo, per così dire, dei nazisti "bianchi”. Ma c’è razzismo anche nelle comunità migranti e post-migranti: per esempio quello contro i curdi o contro le persone di colore».

Il punto è sempre combattere una battaglia per universalizzare i diritti, cosa più facile a dirsi che a farsi eppure nemmeno impossibile: «Prendiamo il caso dei matrimoni forzati. Chiediamoci cosa ci interessa. I diritti delle donne e la loro libertà o rafforzare stereotipi razzisti?»

Quando le si chiede cosa ne pensa della Fatwa sull’illiceita dei matrimoni forzati nell'Islam seguita al caso italiano di Saman Abbas, risponde: «Credo sia positivo che si prenda posizione e che forze progressiste musulmane, che certamente esistono, prendano la parola e contrastino chiaramente questa piaga». E allora come valuta questo dibattito, che ha una sua consistenza anche in Germania, sulle identità? «Credo sia importante che le minoranze si organizzino e lottino per i loro diritti, ma occorre fare uno sforzo in più: serve una dimensione universalista. Se restano minoranze, fanno il gioco di chi le vuole ghettizzare».

Un’altra Germania, un’altra Europa

Othmann ha idee chiare anche sull’Europa, a cui tiene e che vorrebbe vedere più impegnata ad affermare il proprio ruolo: «L’Europa dovrebbe ripensare completamente il suo ruolo nel mondo, siamo in una nuova era e non possiamo restare fermi. Ad esempio, abbiamo lasciato la Siria nelle mani della Russia e della Turchia, questo non va bene. Anni fa ho sperato tantissimo nella proposta del ministro della difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, di una forza di pace internazionale in Siria: abbiamo bisogno di una politica estera europea più consapevole».

Anche il suo giudizio su Angela Merkel è cauto: «Non è la cancelliera che mi auguro o che voterei ma devo ammettere che la rispetto per tante cose che ha fatto, non ultima la decisione del 2015 sui migranti. La politica deve rispecchiare la pluralità che c’è nella società ma non voterò i politici per quello che sono ma per quello che fanno e propongono». È il protagonismo di questa generazione che costituirà la vera novità per la Germania dei prossimi anni.

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