Il ricovero di Silvio Berlusconi ha innescato una congerie di commenti sul dopo Berlusconi: di fronte alla sofferenza di una persona, le speculazioni sugli effetti della sua dipartita non mi sembrano una scelta felice. Auguro a Berlusconi di campare i proverbiali 100 anni. Tuttavia la questione della sua successione è di interesse generale, e non da ora: non tanto per le questioni politiche legate a Forza Italia, quanto a quello di Mfe (già Mediaset).

È infatti inevitabile che il futuro di Mfe sia slegato dalla politica, perché la fine del bipolarismo in politica ha messo anche la parola fine al bipolarismo Mediaset-Rai; perché la tecnologia ha ridimensionato il potere della televisione nella formazione dell’opinione pubblica; e perché non conviene a Mediaset essere percepita di parte quando i suoi utenti sono costituiti dai cittadini di qualsiasi orientamento politico.

Il dopo Berlusconi sarà invece un caso emblematico del problema del passaggio generazionale di un’impresa italiana di successo (e Mediaset lo è) nel momento in cui il suo fondatore deve passare il testimone. Le alternative sono sempre tre: perpetuare il controllo e la gestione da parte della seconda generazione, con intricati problemi di governance che solitamente ne impediscono la crescita; vendere, incassare e lasciare che ciascuno degli eredi gestisca la propria fortuna come meglio crede; o crescere, molto spesso con il sostegno del private equity, ma con un cambio di governance, la cessione della gestione ai manager, e la graduale perdita del controllo proprietario della famiglia, pur mantenendo il potere di indirizzo.

Seconde generazioni

La prima alternativa è troppo spesso seguita dalle imprese italiane, a discapito delle fortune dell’azienda. Per Mfe sarebbe deleteria perché è già un’azienda in declino, in un settore in declino, in quanto deriva i propri ricavi prevalentemente dalla pubblicità in due paesi, Italia e Spagna, a crescita lenta (la quota in ProSiebenSat è per ora solo finanziaria); e perché la televisione generalista è in una parabola discendente, con un’utente medio che invecchia, per via dell’avvento dello streaming e delle altre forme di intrattenimento online.

Basti pensare che dal 2010, prima della crisi finanziaria in Europa, al dato stimato dagli analisti per il 2023, i ricavi di Mfe sono calati del 3,5 per cento medio annuo, e il risultato operativo del 7,3. Sempre sulla base del consenso degli analisti (fonte Factset), il mercato valuta Mfe appena cinque volte gli utili attesi per quest’anno, quasi la metà della mediana di nove degli altri gruppi televisivi tradizionali in Europa (Itv, Tf1, Metropole, Rtl, ProsiebenSat) che pure scontano le difficoltà del settore.

La spiegazione sta proprio nella struttura del gruppo e nella sua governance, che ne penalizza il valore perché focalizzata quasi esclusivamente sul mantenimento del controllo e sulla governance familiare. Infatti, Fininvest controlla Mfe con un sistema duplice di azioni che le conferiscono circa il 50 per cento dei diritti di voto, con il 38 per cento delle azioni di tipo A, mentre il mercato con la stessa quantità di titoli A ha poco più del 26 per cento dei voti.

Inoltre, il 19 per cento di proprietà di Vivendi rimane congelato in una fiduciaria per via della partecipazione in Tim, che secondo gli accordi dovrebbe vendere in cinque anni, ma a prezzi superiori a quelli attuali; tenuto poi conto che Mfe a sua volta detiene l’83 per cento di Mediaset España, il flottante delle due società è estremamente ridotto, e questo ne riduce l’appetibilità per gli investitori istituzionali, deprimendone il valore.

Così Mfe capitalizza poco più di 1,5 miliardi contro un valore mediano di 2,2 delle altre televisioni europee. Un alto prezzo da pagare se si vorrà mantenere il controllo e la governance familiare attuale, e che rende ogni realistico progetto di crescita alquanto velleitario.

Vendita difficile

Difficile la seconda alternativa di vendere, incassare e dividere il ricavato tra i cinque figli secondo l’asse ereditario, per via degli interessi apparentemente divergenti degli eredi. La struttura del gruppo, con Fininvest che, oltre a Mfe, detiene il 30 per cento di Mediolanum e il 53 di Mondadori, due partecipazioni che valgono più di quella nelle televisioni, e con zero sinergie, sembra costruita in modo da dare alla figlia Marina una società da gestire, e a Piersilvio la gestione di Mfe; lasciando gli altri tre figli senza un ruolo gestionale, pur avendo la stessa quota proprietaria.

Si può facilmente immaginare che l’interesse a vendere dei cinque figli non sia la stessa: la ricetta perfetta per un litigio successorio. E poi vendere che cosa? Mfe è sottovalutata in questo momento, ed è difficile valorizzarla se non modificando la governance e la struttura attuale. Un dividendo straordinario da un’eventuale cessione di Mediolanum e Mondadori non potrebbe essere utilizzato per liquidare i tre figli di secondo letto perché andrebbe a tutti e cinque come dividendo straordinario; e svuoterebbe Fininvest che potrebbe fondersi con Mfe, lasciando però una sola poltrona di comando.

Più logico distribuire pro quota ai cinque figli le partecipazioni di Fininvest nelle varie società: così, chi vuole vende, e chi vuole continuare a gestire deve accordarsi sottoscrivendo un patto parasociale. Resterebbe il problema delle poltrone, oltre a quello non trascurabile, della mancanza di capitali e di capacità manageriali necessarie per la crescita.

La terza via

Rimane la terza, e più promettente, alternativa: la strada adottata con successo da alcune famiglie imprenditoriali nel momento del passaggio generazionale. In questo caso nella compagine societaria entra un fondo di private equity che liquida i membri della famiglia che vogliono uscire, oltre a Vivendi e le altre partecipazioni non sinergiche come Mediolanum; fornisce i capitali per fare il delisting dalla Borsa e implementare più facilmente un piano di sviluppo; lascia la famiglia in controllo ma con un ruolo più strategico che gestionale, e apporta le capacità manageriali necessarie per la crescita.

Che nel caso di Mfe non potrebbe avvenire prevalentemente tramite aggregazioni con altre imprese nel settore in Europa, come si sta cercando di fare con ProSiebenSat, perché sono quasi tutte controllate da un gruppo con cui ci sarebbero estenuanti negoziazioni; perché in tutti i paesi europei quando si tratta di televisioni entrano in gioco interessi politici locali; e perché aggregando due aziende in un settore in declino non si hanno grandi benefici dalle economie di scala.

La strada da seguire è piuttosto quella degli Stati Uniti dove non ci sono più le società televisive tradizionali, ma dei veri conglomerati del tempo libero e dell’intrattenimento che le hanno incorporate, come Comcast (controlla Sky), Paramount, WarnerBros-Discovery, Liberty Media, o Disney; per poi crescere e diversificare nello streaming via internet, produzione di film e serie, proprietà di squadre o eventi sportivi (vedi F1), parchi divertimento, video giochi e altre forme di interazione. Senza contare la concorrenza delle società tecnologiche come Amazon (PrimeVideo), Apple TV o Netflix. Società che il mercato valuta in media 17 volte gli utili, un forte premio rispetto alle tv europee. Mediaset ha tentato in passato la strada della diversificazione nei contenuti con Endemol, ma è finita con un flop.

Approccio dinastico

Due esempi recenti di quale potrebbe essere una strategia di successo per il dopo Berlusconi sono quelli dei Benetton che hanno fatto entrare il fondo Blackstone per fare il delisting di Atlantia, dopo aver fuso Autogrill con Dufry, e per implementare la strategia di crescita, o della famiglia Vacchi, che assieme a BC Partners hanno fatto il delisting di Ima, leader mondiale nei macchinari.

Ma che forse richiederebbe più lungimiranza e un approccio meno dinastico negli affari della famiglia Berlusconi.

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