Nella prima parte dell’anno ha prevalso il timore che il mantenimento di politiche monetarie e fiscali straordinariamente espansive a fronte della forte ripresa economica in atto portassero a un aumento duraturo dell’inflazione. Un rischio corroborato dalla decisione della Federal Reserve e Bce di abbandonare l’obiettivo rigido del 2 per cento di inflazione.

Nessuna delle due banche centrali ha chiarito di quanto l’inflazione potrà discostarsi dal 2, e quanto a lungo, ma è passato il messaggio che dopo un decennio di quasi stabilità dei prezzi, un pò più di inflazione sarà la nuova normalità. Timori confermati dalla crescita dei prezzi a luglio: 5,3 per cento negli Stati Uniti e 3,1 in Germania. Come pure confermate le attese di forte crescita dalle semestrali delle società: le stime di consenso prevedono infatti incrementi di fatturato e utili delle imprese americane ed europee superiori al trend anche nel 2022 (mediamente, +9 per cento gli utili, e +6 il fatturato). Uno scenario di crescita e inflazione che sarebbe coerente con un forte aumento dei tassi a lungo termine.

La frenata

Nelle ultime settimane sembra invece che lo scenario sia cambiato. Dopo gli aumenti di primavera, i tassi a 10 anni sono ritornati ovunque ai livelli di inizio 2021; il prezzo del greggio (Brent) è crollato del 13 per cento dal massimo di 75 dollari toccato a luglio; l’indice di fiducia dei consumatori e le vendite al dettaglio negli Usa hanno subito nell’ultimo mese un’inattesa quanto significativa battuta d’arresto, come pure l’indice delle aspettative degli imprenditori tedeschi, o la produzione industriale in Cina.

La ragione più probabile è la recrudescenza del Covid per via della variante delta, anche nei paesi con un elevato tasso di popolazione vaccinata, che ha incrinato la speranza di raggiungere l’immunità di gregge.

La pubblicazione del verbale dell’ultima riunione della Federal Reserve in cui è emerso che la maggioranza dei partecipanti ritiene che si debba iniziare a ridurre i 120 miliardi di acquisti mensili di titoli già dai prossimi mesi, ha aggravato il pessimismo dei mercati, causando perdite generalizzate in Borsa. 

In poco tempo si è così passati dall’entusiasmo per i vaccini e i timori di una crescita inflazionistica, alla paura che la strada per uscire dalla crisi si trasformi in un cul de sac. Quale è lo scenario più probabile? Dopo una crisi economica che non ha precedenti come quella da Covid, il ritorno alla normalità è necessariamente accompagnato da grandi incertezze e repentini cambi di umore, non potendo fare riferimento al passato. E’ possibile però stabilire alcuni punti fermi.

La comunità scientifica non riesce a dare certezze sul futuro sviluppo della pandemia, ma la prospettiva più ragionevole è che questa assomigli a un’onda lunga che gradualmente si attenua e, tra alti e bassi, scemi anche l’impatto sul comportamento dei consumatori.

Lecito quindi attendersi che il contributo dei consumi alla crescita in futuro non differirà rispetto agli anni pre Covid. Lo confermano le aspettative delle imprese e i loro piani di investimento, superiori alla media storica, che meglio di chiunque conoscono i loro clienti. La solidità della ripresa, e la crescita degli utili, non sono quindi in dubbio.

Dubbi sull’inflazione

03 January 2021, Hessen, Frankfurt/Main: The skyscrapers of Frankfurt's banking skyline rise behind the European Central Bank (ECB) out of the gathering darkness. Meanwhile, politicians and academics continue to consider extending the lockdown beyond January 10. Photo by: Boris Roessler/picture-alliance/dpa/AP Images

Quanto all’inflazione, c’è certamente una componente transitoria: basti pensare che il maggior contributo all’inflazione americana viene dal costo del noleggio e dell’acquisto di auto usate, aumentati a causa del crollo della produzione di nuove autovetture per via della penuria di semiconduttori (in Europa ha prevalso il rinvio degli acquisti); che i dati pubblicati sono calcolati tenendo conto della stagionalità che però il Covid ha reso oltremodo difficile da quantificare; o che la cosiddetta inflazione core, che esclude le componenti volatili di cibo ed energia, è meno preoccupante (4,2 e 1,8 per cento, rispettivamente, in Usa e Germania).

Inoltre, l’inflazione americana è probabilmente sovrastimata dal grande peso del costo dell’abitazione nel paniere (31 per cento rispetto al 7,5 europeo), calcolato come affitto figurato, e a valori di mercato, anche per i proprietari di abitazioni (da noi entrano solo gli affitti effettivamente pagati).

I dati sull’inflazione di questi mesi sono quindi distorti da componenti eccezionali. Un errore però ignorare gli elementi strutturali che fanno presagire un aumento duraturo nella crescita dei prezzi. In futuro verrà meno la principale causa della moderazione di prezzi e salari nel mondo occidentale degli ultimi venti anni: la delocalizzazione delle produzioni in Cina tramite le catene di produzione.

La ragione è la forte crescita del reddito pro capite cinese, l’invecchiamento della sua popolazione, la politica del governo a favore del ceto medio e del miglioramento del welfare, e la difficoltà di spostare le catene di produzione in altri paesi emergenti. 

Uno sviluppo che in occidente porterà anche ad un aumento del potere contrattuale dei lavoratori, rafforzato anche dall’invecchiamento della popolazione che riduce la forza lavoro. Dopo un decennio, i salari tenderanno a crescere più rapidamente dell’inflazione.

Fattori strutturali e umorali

Le disfunzioni nelle catene di produzione (7 milioni di auto prodotte in meno per la penuria di semiconduttori) e i maggiori costi di trasporto (il prezzo di un container tra Cina e Usa è quadruplicato) dovuti ai ritardi e alle disfunzioni nella logistica costituiscono un elemento di costo molto più duraturo di quanto si pensasse. E la corsa all’elettrificazione della green economy farà aumentare il prezzo dell’energia verde necessario a remunerare i massicci investimenti richiesti, ma al tempo stesso anche quello dei combustibili fossili poiché le società energetiche hanno cessato gli investimenti nella ricerca e sviluppo di nuovi giacimenti.

Nonostante si preveda che la Federal Reserve cominci a ridurre gli acquisti titoli nei prossimi mesi, il mercato si aspetta però che i tassi a lungo termine rimarranno storicamente bassi come dimostra il differenziale tra i rendimenti a 30 e a 5 anni del debito americano che è sceso da 1,65 per cento di marzo all’ 1,2 di oggi: segno che l’eventuale aumento dei tassi a breve non inciderà su quelli a più lungo termine.

E’ ormai convinzione diffusa che la repressione finanziaria, ovvero tassi di interesse inferiori all’inflazione, sia la strada scelta per smaltire l’enorme debito accumulato col Covid. A maggior ragione in Europa dove la Bce dovrà dare la priorità alla sostenibilità del debito pubblico dei paesi membri se vorrà evitare una nuova crisi dell’euro.

Complessivamente uno scenario propizio agli investimenti in attività reali (capitale di rischio e immobili), ma pregiudizievole al reddito fisso. E che crea un potenziale conflitto di interessi tra la crescente schiera di pensionati, che subirebbero un’erosione del loro risparmio previdenziale, e i lavoratori qualificati, oltre che gli imprenditori, che invece beneficerebbero di una maggiore crescita di salari reali e utili.

Quanto alle oscillazioni dei mercati, sono notoriamente dovuti a miopia e sbalzi di umore. Ma che non dovrebbero distogliere l’attenzione dallo scenario che ci attende.

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