Xi Jinping è tornato sul palcoscenico di Davos, a quattro anni dal suo primo intervento, questa volta in versione virtuale e soprattutto da leader della nazione che ha combattuto il Covid-19 meglio di altri e che guida la ripresa globale con cifre di crescita annuale doppie rispetto agli Stati Uniti. Per la prima volta «tutte le regioni del mondo sono state colpite da una crisi multipla senza precedenti», «dobbiamo continuare a lottare, ma usciremo senza dubbio più forti da questo disastro», ha detto dalla sua posizione di forza.

Se nel 2017 il leader di Pechino aveva difeso il multilateralismo nell’era di Trump e delle sue guerre commerciali con un discorso che per la propaganda interna, ma non solo per quella, aveva segnato una svolta nello standing internazionale della Repubblica popolare cinese, questa volta il presidente cinese è andato oltre, offrendo il manifesto della globalizzazione vista da Pechino, una globalizzazione cui la Cina è vincente e che non può tornare all’era pre Trump, descritta a più riprese, anche se in maniera non esplicita, come disegnata sul vantaggio americano, né alla Guerra fredda e a un sistema di relazioni internazionali «a somma zero».

L’agenda di Xi

I media cinesi hanno preparato l’appuntamento ricordando il discorso del 2017 e i passi avanti compiuti nell’apertura dell’economia nazionale con un lungo elenco degli accordi commerciali siglati. Ma rispetto a quattro anni fa il tono complessivo è risultato più assertivo. «La storia sta muovendo velocemente e il mondo non tornerà indietro, ogni scelta che facciamo oggi darà forma al mondo del futuro», ha detto il leader cinese, presidente dal 2013 e riconfermato nel 2018 con una modifica costituzionale che gli permette di rimanere in carica a vita.

La prima cosa da fare per uscire dalla «peggiore recessione dalla Seconda guerra mondiale» secondo Pechino è coordinare «le politiche macroeconomiche» e mettere in campo una risposta guardi oltre l’orizzonte a uno sviluppo di lungo periodo. La seconda è invece abbandonare quelli che ha chiamato «pregiudizi ideologici»: ogni paese ha la sua storia, cultura e il suo sistema sociale, ha ripetuto più volte, «ogni paese è unico» e la globalizzazione non significa uniformarli. Un modo per dire che il modello di sviluppo cinese – Xi lo ha definito un percorso per diventare «un paese socialista moderno» – non può essere contestato come competitor. Il leader di Pechino si è anche presentato come la voce dei paesi in via di sviluppo che chiedono una maggiore rappresentanza nell’economia globale, mettendo al terzo posto tra le priorità quella di colmare i divari globali, difendendo le istituzioni multilaterali a partire dall’Onu che devono essere «rafforzate». Sul fronte economico, secondo Pechino, il G20 deve essere la piattaforma di confronto principale: «La storia e la realtà hanno chiarito che l’approccio fuorviante di antagonismo e di confronto, sia esso sotto forma di guerra fredda, guerra calda, guerra commerciale o guerra tecnologica, alla fine danneggia gli interessi di tutti i paesi».

Xi ha detto che la Cina «continuerà a promuovere la liberalizzazione dei commerci», che serve abbattere le barriere commerciali, quelle agli investimenti e al progresso tecnologico. Ha annunciato di voler raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, e da capo della nazione più criticata per la mancanza di condivisione delle informazioni sull’epidemia, ha difeso un ambiente scientifico aperto.

I rapporti con Biden

«Come nella precedente apparizione, vuole essere visto come il bastione del multilateralismo in opposizione agli Stati Uniti che spingono per una guerra fredda», dice Alicia Garcia Herrero, senior fellow del think tank Bruegel. «La seconda idea da cui parte è quella di mostrare la vittoria della Cina contro il virus sulla base di una performance economica sorprendente e per questo utilizza i dati del Pil del quarto trimestre. Tutto sommato, il discorso è una critica velata ma evidente agli Stati Uniti. Non credo che sarà ben accolto dalla nuova amministrazione».

Molti credevano che potesse essere l’occasione per ricucire un rapporto con Washington. Ma non è così: Xi ha spiegato che non può esserci un «multilateralismo selettivo», a favore di pochi, ha ripetuto più volte gli affondi contro «l’arroganza» e l’unilateralismo e ha criticato il «decoupling» cioè la possibilità di sdoppiare le catene del valore delocalizzate in Cina rimpatriando le produzioni, una delle priorità del programma di Joe Biden, che ha fatto suo lo slogan buy american. La Cina, dice il presidente della Repubblica popolare, è pronta a mettere a favore degli altri le potenzialità del suo mercato e della sua domanda interna. Lo dice dopo che due terzi del mondo secondo gli ultimi dati del Fmi scambiano più beni con la Cina che con gli Stati Uniti. Lo dice da primo partner commerciale della maggioranza dei paesi del continente africano e latinoamericano e di paesi europei come Germania e Spagna e dopo aver sottoscritto un patto per gli investimenti con l’Unione europea che gli Stati Uniti avevano chiesto di ritardare, ma anche mentre ingaggia una quasi guerra commerciale con l’Australia. «La vera domanda», dice Herrero, «è perché Xi non ha sfruttato questa opportunità per offrire una mano la nuova amministrazione statunitense. Ma le sue idee sugli Stati Uniti sembrano fissate sulla concorrenza strategica, qualunque cosa possa pensare l’amministrazione Biden». Proprio Biden ha appena firmato un decreto per rendere più stringenti gli acquisti sui prodotti dall’estero delle agenzie federali. «Non possiamo tornare al passato del passato», ha detto Xi, e non è il solo a pensarlo.

 

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