Incerta anche la provenienza del minerale di alta qualità per gestire i preriduttori. È un elemento scarso e si trova in discreta quantità in Donbass, terra ucraina conquistata dalla Russia
I giochi sono praticamente chiusi. La scorsa settimana il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ha annunciato che la trattativa per la cessione di AdI, Acciaierie d'Italia, ovvero l'ex Ilva di Taranto, continuerà con il gruppo azero Baku che ha messo sul piatto un miliardo e 100 milioni per acquisire l'azienda (e in questa cifra rientra il mezzo miliardo che costituisce il valore del magazzino), più quattro miliardi di investimenti industriali e ambientali in cinque anni, in due forni elettrici che dovrebbero diventare successivamente tre, nell'uso del gas a sostegno della transizione della fabbrica e in circa 7.800 occupati con il vincolo, posto dal bando, dei due anni.
Due mesi per la cessione
Uno dei motivi che ha fatto pendere l'ago della bilancia verso Baku, a discapito degli indiani di Jindal (gli sfidanti), è il fattore tempo: Baku, che è una piccolissima acciaieria del Caucaso, non ha il rischio di assumere una posizione dominante e quindi non serve l'approvazione dell'Antitrust europeo – che comporta un lungo iter autorizzativo -, mentre Jindal, avendo una produzione diffusa in varie parti del mondo, dovrebbe passare dal vaglio dell'autorità per la concorrenza.
Un altro motivo è che Baku non sarà sola nell'operazione, ma avrà il sostegno di Azerbaijan Investment, ovvero il fondo azero di investimenti. Proprio nell'estate del 2024, a seguito di una visita del ministro dell'Economia azero, Mikayil Jabbarov, a palazzo Piacentini, Adolfo Urso aveva già aperto a una possibile cooperazione per rifornire di energia sostenibile l'impianto siderurgico dell'ex Ilva.
In base al cronoprogramma stabilito dai commissari di AdI, dunque, entro due mesi il contratto potrà essere firmato e la cessione sarà ultimata. Tuttavia il futuro della produzione di acciaio italiano, profondamente legato all'attività di Ilva, che ricordiamo essere l'unico polo nazionale per la produzione di acciaio primario, cioè da minerale, con la cessione a Baku resta più che mai incerta. Per altro, se davvero si sta ragionando sul riarmo e sugli investimenti nel militare, va detto che l'acciaio è l'elemento alla base di qualsiasi armamento, dal carro armato ai proiettili: si tratta quindi di un bene strategico da non svendere, se l'obiettivo è quello del riarmo.
I dubbi sul rigassificatore
Con Baku, invece, si prospetta uno scenario in cui la componente siderurgica è del tutto ancillare rispetto alla gestione dell’eventuale rigassificatore galleggiante che potrà essere realizzato al largo di Taranto. Si è detto che questo serbatoio di energia, che proverrebbe direttamente dall'Azerbaijan, servirà a calmierare il costo del gas da utilizzare per la produzione di preridotto e per far funzionare l'impianto siderurgico ma, per ragioni regolatorie, il gas ritirato al punto di rigassificazione non può presentare scostamenti di prezzo rilevanti tra un cliente e gli altri: detto altrimenti, gli azeri sul territorio italiano non potranno concedersi un prezzo del gas molto diverso da quello pagato dagli altri acquirenti di gas in Italia.
Semmai è vero il contrario: con il rigassificatore piazzato a Taranto, che integra l’offerta di gas sul mercato italiano (specialmente integra quella che arriva al paese attraverso il Tap) gli azeri potranno diventare un attore in grado di manovrare pesantemente i prezzi e la quantità disponibile di metano sul nostro territorio. E in tempi di instabilità geopolitica non è una buona notizia.
I russi in campo
Per quanto riguarda il futuro dello stabilimento, i sindacati hanno già avuto modo di sollevare dubbi e perplessità sulla capacità industriale di Baku di gestire un impianto a ciclo continuo e hanno chiesto di poter partecipare alla trattativa fin dalle battute iniziali.
Opzione, però, che il ministro Urso ha per il momento respinto. Il sindacato sarà presente solo nelle fasi finali della trattativa, non entrando nel merito del piano industriale che, attualmente, resta fumoso, e ancora non è chiaro come l'azienda intenda sostenere i livelli occupazioni promessi, dal momento che Baku Steel non ha alcuna significativa esperienza né nel gestire impianti di questa dimensione né la competenza nella gestione di cicli integrati basati sul sistema altoforno-convertitore.
A chi ha sollevato dubbi, i vertici di Baku hanno risposto che ingaggeranno tecnici di comprovata esperienza anche di provenienza russa per gestire gli impianti che versano in condizioni precarie, visto che con due altoforni non riescono a raggiungere i 4 milioni di tonnellate di acciaio.
Inoltre, anche sull’approvvigionamento di minerale di elevata qualità per gestire i preriduttori, che dovrebbero sostituire gli altoforni, versa un’inquietante opacità, dato che non si sa da dove dovrebbe provenire questo materiale che rappresenta una risorsa scarsa. Una delle poche regioni provviste di questi materiali sono alcuni territori del Donbass, in quella che era terra ucraina, occupata dall’esercito russo nel 2022. E questo sarebbe uno scenario ancora più inquietante.
Sono tutti nodi che i commissari di Acciaierie d'Italia scioglieranno nelle prossime settimane, mentre il governo e in particolare il ministero dell'Economia valuteranno le richieste avanzate da Baku, ovvero la partecipazione dello Stato italiano nell'ex Ilva e incentivi pubblici per un valore di 5,5 miliardi divisi tra investimenti, energia e crediti con la garanzia di Sace, altra società pubblica, al 70 per cento. Infine, resta aperta l'ipotesi che, una volta finalizzato l'accordo con Baku, sia possibile far entrare nella compagine azionaria altre società, ad esempio la stessa Jindal che ha maggiore know how sull'attività siderurgica, ma anche il gruppo che fa capo ad Antonio Gozzi o la Marcegaglia.
© Riproduzione riservata