Ho scoperto che diversi fondi d’investimento  sono anche quotati sul circuito di Borsa Italiana detto ATFund e siccome sono un risparmiatore fai da te e seppure prediligo gli Etf alcuni fondi molto specializzati li trovo comunque interessanti. Questo mercato consentirebbe di acquistare fondi con commissioni di gestione molto più basse di quelle normalmente praticate. Anche di due terzi inferiori: un bel risparmio! La mia banca non mi ha mai parlato di questa possibilità e quando ho provato a chiedere di acquistare un fondo quotato in borsa su questo mercato mi è stato detto che non è possibile perché non offrono questa operatività. Ma se voglio acquistare lo stesso fondo con una classe differente e che costa quasi il triplo allora questo è possibile. Non è scorretto un simile comportamento? Con la normativa europea Mifid le banche non dovrebbero fornire la best execution? Posso denunciare la mia banca alla Consob o all’Antitrust? Cosa posso fare?
F.


Gentile F.

Qualche tempo fa su questo stesso giornale Salvatore Bragantini (ex commissario Consob) commentando i bilanci 2021 di molte banche scriveva: «La messe eccezionale di profitti bancari legati alle commissioni su prodotti finanziari suscita dubbi. Su trasparenza dei costi e conflitti d’interesse nei collocamenti, l’Antitrust non ha nulla da dire?». 

Il tema che solleva è di grande attualità e ne offre uno splendido esempio. Anche perché da qualche telefonata fatta ho scoperto che Borsa Italiana di proprietà ora di Euronext (che ora vanta fra gli azionisti in nome della “italianità” la solita Cassa depositi e prestiti e inoltre Intesa Sanpaolo) sta pensando fra le varie ipotesi anche di chiudere definitivamente il mercato ATFund.

Che in verità non è mai decollato per l’ostracismo (come ha provato sulla sua pelle e non solo lei ma migliaia di risparmiatori) delle principali banche e società di gestione del risparmio. Alla faccia dell’italianità e del conflitto d’interessi.

Riavvolgiamo un attimo il nastro e spieghiamo cosa è questo mercato. Nel 2013/2014 Borsa Italiana sotto il controllo all’epoca del London Stock Exchange Group e la direzione di Pietro Poletto (al tempo a capo delle attività di fixed income ed Etf) viene lanciato questo progetto che vorrebbe portare “innovazione”, “trasparenza” e assicurare maggiore “tutela degli investitori”. Sic.

I fondi quotati e negoziati su questo segmento di Borsa italiana (prima ETFPlus poi dal 2018 ATfund) non prevedono infatti costi di sottoscrizione o di rimborso e non contemplano quindi costi di distribuzione.
Oggi su questo mercato risultano quotati 86 fondi per masse sottoscritte di circa 480 milioni di euro. Una quota quasi irrisoria rispetto a quella del mercato dei fondi d’investimento in Italia ma sono diverse le ragioni di questo flop o per meglio dire secondo alcuni esperti interpellati “boicottaggio”.

Le principali banche e sgr non consentono infatti l’accesso a questo mercato dall’internet banking e le principali società di gestione del risparmio italiane e straniere tranne rare eccezioni (per esempio AcomeA di Alberto Foà) si sono tenute ben lontane dal quotare su questo mercato i fondi anche “per non irritare le stesse banche e reti che collocano a prezzi maggiorati i loro veicoli d’investimento e fare prezzi più bassi al mercato retail”, secondo quanto confermano in via ufficiosa diversi addetti ai lavori.

Sullo sfondo occorre ricordare che da anni ferve il dibattito sui costi dei prodotti finanziari collocati ai risparmiatori da banche e reti visto che l’Italia è fra i paesi dove si vendono i fondi fra i più cari al mondo (peggio di noi solo Taiwan) come suffragato da diverse ricerche internazionali (Morningstar per esempio).

I fondi d’investimento  che si vendono in Italia costano, infatti, quasi il quadruplo di quelli collocati in Olanda, negli Stati Uniti e in Svezia e costano il doppio di quello che li pagano i risparmiatori del Regno Unito.

Un bengodi per banche e reti di vendita che riescono a far pagare quattro volte tanto in Italia quello che all’estero costa molto meno. Un mostro che viene alimentato dal sistema delle retrocessioni: i prodotti del risparmio gestito costano carissimi in Italia perché incorporano le commissioni che vengono ristornate a banche e reti di vendita che si trattengono le eventuali commissioni di ingresso e uscita e il 75-80 per cento circa delle commissioni di gestione che paga l’investitore.

Se la vostra banca vi consiglia un fondo che costa il 3 per cento annuo, gestito dalla società Alfa, in realtà mediamente alla società Alfa andrà solo l’1 per cento, mentre il 2 per cento circa ritorna al collocatore (la banca e tutta la piramide di venditori) per la segnalazione fatta passare magari per consulenza.

L’idea di creare un mercato “low cost” dei fondi era sembrata qualche anno fa un primo timido passo in avanti verso la trasparenza nel segno della direttiva europea Mifid II. Questa normativa in vigore dal gennaio 2018 obbliga tutti gli intermediari e consulenti «a fornire informazioni chiare e complete al cliente che deve essere messo in condizione di comprendere il costo del suo investimento, inclusi i pagamenti di terze parti», ricorda Massimo Scolari, presidente di Ascofind, associazione per la consulenza finanziaria indipendente.

Peccato che sotto lo sguardo, per molti assente, dei regolatori (da Agcm a Consob) la maggior parte delle banche e sgr ha preferito non offrire ai propri clienti la possibilità di comprare fondi sul mercato AtFund perché il “vecchio sistema” è evidentemente quello più redditizio.

E le stesse società di gestione, che in Italia hanno un disperato bisogno della catena dei distributori per vendere i loro prodotti, si sono premurate di non quotare i loro fondi su questo mercato. E molte banche e reti “boicottano” anche l’acquisto degli Etf che rispetto ai fondi hanno un costo annuo anche del 90 per cento inferiore e non ristornano commissioni a banche e reti.

Le commissioni sui prodotti del risparmio gestito e sulle assicurazioni sono d’altra parte il vero pozzo d’oro del sistema bancario italiano che oggi realizza oltre il 60 per cento dei suoi profitti proprio dal cosiddetto “wealth management”.

Un modo carino e cool per dire “fare soldi con i soldi degli altri” (definizione di Alexander Dumas sugli “affari” sempre attuale), tosandoli talvolta con commissioni su commissioni.

E senza sostenere alcun rischio d’impresa. Il modello vincente del moderno banchiere.  Alcune banche hanno sostenuto in realtà che è troppo complesso integrare l’architettura informativa di AtFund nelle proprie piattaforme ma c’è il caso di Directa Sim, un operatore indipendente da poco quotato a Piazza Affari, che da anni offre questa possibilità per la serie “nulla è impossibile se lo si vuole”.

Peraltro per le società di gestione di fondi indipendenti non è facile farsi conoscere e collocare i propri fondi e questo mercato dei fondi aperti quotati poteva aumentare la concorrenza nel settore, la trasparenza e la riduzione dei costi per i risparmiatori perché alcune banche (anche online) si fanno strapagare (in termini di retrocessioni) per offrire nel loro bouquet i fondi di società terze. Un pedaggio spesso salatissimo.

Borsa Italiana (e soprattutto ora sotto la guida franco-italiana) starebbe quindi riflettendo sul progetto di smantellare il mercato ATfund e potrebbe (secondo diverse fonti interpellate) metterci anche una bella riga rossa sopra e chiudere questa piattaforma su cui non sembra crederci molto. E che non genera certo grandi profitti visti i volumi negoziati e l’ostruzionismo evidente di banche e fondi.

Non sarebbe un bel segno per la tutela del risparmio e la trasparenza ma così funzionano le cose in Italia e darebbe un’ennesima rappresentazione di cosa è in Italia il conflitto d’interesse.

Peraltro fra gli azionisti italiani di Euronext c’è Intesa Sanpaolo che dal wealth management ricava la maggior parte dei profitti. C’è da sperare che Borsa italiana in nome anche dell’italianità non furbetta mantenga aperto questo segmento e anzi d’intesa con i regolatori trovi il modo di farlo uscire dall’angolo morto in cui è stato sepolto.

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