Alla fine la quota di azionisti di Ubi Banca che ha aderito all’Offerta pubblica di scambio di Intesa San Paolo è arrivata al 90,2 per cento, secondo i risultati provvisori comunicati la sera del 30 luglio. Quelli definitivi saranno diffusi il 4 agosto, ma con queste cifre il percorso di fusione tra il primo e il quarto istituto di credito italiano si semplifica. Non servirà un’assemblea straordinaria e Intesa San Paolo sarà obbligata ad acquistare i restanti titoli dei soci Ubi che ne faranno richiesta. La fusione tra la banca guidata da Carlo Messina e l’istituto di Victor Massiah darà vita a un gruppo che gestirà, nelle parole di Messina, “oltre 1,1 trilioni di risparmi” degli italiani e controllerà, sempre secondo Intesa, “il 20 per cento delle quote di mercato in tutti i settori di attività”. L’operazione dovrebbe essere completata entro i primi mesi del 2021. E per come è nata e si è sviluppata, chiude una stagione e ne apre un’altra, dettando di fatto le condizioni per un nuovo ciclo di aggregazioni sotto la spinta della Banca centrale europea.

Per acquistare Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, Intesa ha speso un euro, per acquisire Ubi Banca e vincere le resistenze degli azionisti storici bresciani e bergamaschi ha dovuto ritoccare al rialzo l’offerta pubblica di scambio annunciata il 17 febbraio e che prevedeva lo scambio di 1,7 azioni di Intesa per ogni azione di Ubi, aggiungendo 0,57 centesimi ad azione, in tutto 652 milioni di euro in contanti. Il tutto mentre il titolo di Ubi è salito dai 3,3 euro del 14 febbraio, valore di riferimento dell’Ops, ai 3,4 euro del 30 luglio e quello di Intesa è sceso dai 2,5 a 1,7 euro.

Per i soci storici del Car (comitato di azionisti di riferimento) che controllava il 17,8 per cento del capitale e che in un primo momento aveva rigettato l’offerta definendola “ostile, non richiesta e non adeguata al valore sottostante di Ubi”, l’ultimo rilancio di Intesa vale 116 milioni di euro in più. Vuol dire un assegno di circa 38,5 milioni per la Cassa di risparmio di Cuneo, di 32 milioni di euro per la Fondazione Banca del Monte di Lombardia e di circa 6,5 milioni di euro per azionisti quali il gruppo Radici, l’Upifra dei Beretta o la Next Investment dei Bombassei. Intesa ha pagato il prezzo per adeguarsi a una nuova fase.

Dal punto di vista industriale l’obiettivo dell’operazione è chiaro. “Come ha spiegato la Bce in fasi di calo dei ricavi, il consolidamento compensa la riduzione della redditività, con questi tassi non c’è altra soluzione dal punto di vista della profittabilità”, dice Jerome Legras, managing partner e head of research di Axiom Alternative Investments.

Da gennaio il presidente del consiglio di Sorveglianza della Banca centrale europea, Andrea Enria, continua a insistere sulle aggregazioni. Solo con l’operazione con Ubi Banca, Intesa arriva al settimo posto per proventi operativi nell’Eurozona, mentre prima di lei si piazzano tre banche francesi e due spagnole. Per Legras, rispetto ai competitor europei la nuova Intesa “è ben posizionata per redditività del portafoglio di attività: ha un buon mix del business”, ma d’altro canto pesa “l’esposizione al rischio Italia” cioè al paese con la crescita più debole dell’Eurozona.

Se la diversificazione è la sua forza sul fronte europeo, dunque, il suo essere una banca “nazionale” ne costituisce la debolezza. Nell’opposizione a un’offerta che ha da sempre ritenuto ostile, l’amministratore delegato di Ubi Banca, Massiah, ha lanciato ripetutamente l’allerta sul rischio di concentrare nelle mani di un singolo istituto il controllo una quota così ampia del mercato italiano, ma il problema di Intesa, più che la concentrazione in Italia, è piuttosto la mancanza di presenza oltreconfine per diversificare il rischio paese. “Le aggregazioni transfrontaliere sono complicate in questo momento dalla frammentazione della normativa”, osserva Legras. “La realtà è che il mercato italiano non è abbastanza concentrato”.

Stando alle dichiarazioni di Messina, l’intenzione di Intesa, creditore di tutte le partite industriali e finanziarie che contano, dall’Ilva al Corriere della sera, è diventare un attore “proattivo sul mercato europeo” e “il pilastro” della ripresa italiana. Chiaramente l’Intesa post fusione sarà un player di livello europeo a livello di ricavi e capitalizzazione, ma non è chiaro se possa anche cogliere opportunità fuori dai confini nazionali. Intanto è sul fronte interno che le mosse della banca di sistema hanno già innescato l’inizio di una nuova fase.

Per attenersi alle richieste dell’Autorità antitrust italiana, Intesa ha sottoscritto un accordo con Bper per la cessione di 532 sportelli: il 70 per cento sono nel nord Italia, in particolare in Lombardia, e poi Piemonte e Marche, e vanno a sommarsi agli attuali 1.349 della banca emiliana (dopo una razionalizzazione prevista dal piano industriale precedente). Per acquisire le nuove filiali che portano il totale a 1850, l’istituto partecipato da Unipol e UnipolSai dovrà varare un aumento di capitale che secondo gli analisti si attesta tra i 700 e i 800 milioni di euro. L’assemblea di aprile ha già dato il via libera a una nuova iniezione di liquidità fino a un miliardo di euro, ma questo sforzo programmato rende più difficile il coinvolgimento di Bper in altre operazioni costose da qui alla fine dell’anno. E l’operazione costosa e rischiosa a cui tutti guardano è la vendita del Monte dei Paschi di Siena.

Il ministero dell’Economia guidato da Roberto Gualtieri, che detiene il 68 per cento di Mps, ha scelto come advisor la stessa Mediobanca che ha fatto da consulente all’Ops di Intesa e che a sua volta è primo azionista di quelle Generali che a giugno hanno annunciato un accordo per l’ingresso al 24,5 per cento in Cattolica assicurazioni, azionista di Ubi e aderente al patto di consultazione tra i soci storici.

Solo dopo l’intesa con Generali per un aumento di capitale, Cattolica ha deciso di aderire all’Ops di Intesa (a inizio giugno aveva prorogato anche gli accordi sulla joint venture Lombarda vita con Ubi fino a metà del 2021). E l’assemblea di oggi ha votato una trasformazione da cooperativa a società per azioni che è condizione per l’ingresso nel capitale di Cattolica e che il cda presieduto da quattordici anni da Paolo Bedoni aveva sempre fermamente rifiutato. Anche gli accordi tra Generali e la compagnia assicurativa di Verona dovrebbero finalizzarsi per l’autunno.

Su Monte dei Paschi di Siena invece il governo azionista vuole chiudere per la fine del 2021. Ma su Mps pesa la richiesta di ricapitalizzazione da 700 milioni di euro da parte della Bce, e anche rischi legali pari a 4,8 miliardi, di cui 2,2 miliardi classificati a “soccombenza probabile” legati alle cause sui conti diffusi tra 2008 e 2015. Le conseguenze economiche della pandemia avranno poi indebolito i conti di tutti gli istituti. Gli analisti a inizio luglio hanno già iniziato a valutare le opzioni di aggregazione con Banco Bpm. Ma per capire qualcosa di più della condizione delle banche italiane, e non solo di quelle italiane, bisognerà attendere il terzo e quarto trimestre dell’anno: allora avremo la riprova della profondità reale della crisi.

Con l’inizio del 2021 l’impatto sulle imprese e di conseguenza sul settore del credito dovrebbe essere più chiaro e così le possibilità di consolidamento a livello italiano ed europeo. La Bce sta riorganizzando la sorveglianza, estendendo il divieto di distribuire dividendi, ma anche l’allentamento dei requisiti di capitale. Insomma si sta preparando per tempo. Intesa, pure.

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