Il blocco dei licenziamenti nel 2020 ha preservato 330 mila posti, ma il reddito dei lavoratori italiani è comunque crollato, in media del sette per cento per i lavoratori del privato, mentre i posti persi sono soprattutto quelli dei lavoratori indipendenti, di cui solo una minoranza sono realmente imprenditori autonomi. E anche se i dati di Bankitalia e ministero del lavoro registrano più 719mila nuovi occupati nei primi sei mesi del 2021, siamo ancora ben al di sotto dei livelli che avremmo raggiunto senza la pandemia.

Il rapporto annuale dell’Inps presentato ieri in parlamento fotografa in dettaglio la crisi economica italiana e un sistema di welfare che se da una parte è stato un fondamentale salvagente per centinaia di migliaia di cittadini, dall’altra resta un patchwork di misure di cui la crisi ha mostrato tutta la necessità di aggiustamento.

Il reddito di cittadinanza di cui si discute l’abolizione, chiesta da Matteo Renzi e Matteo Salvini, durante il 2020 è stato un sostegno per un milione e ottocentomila nuclei famigliari, che hanno ricevuto in media 552 euro al mese: stiamo parlando di circa 3,7 milioni di persone, di cui una su quattro è un minore di diciotto anni. Altre 722mila famiglie con gravi difficoltà economiche hanno potuto usufruire del reddito di emergenza.

misure contrasto povertà

Il reddito di cittadinanza

Il rapporto ha il pregio di mettere per iscritto quello che le agenzie del lavoro che funzionano toccano con mano nella attività quotidiana. L’occupabilità dei percettori di reddito di cittadinanza è purtroppo molto scarsa. Dei quasi quattro milioni di individui a cui è indirizzato il sostegno 1 milione e 350 mila sono appunto minori che vivono in famiglie che per reddito hanno diritto all’aiuto, 450 mila sono persone disabili e un’altra fetta sono persone con difficoltà fisiche o psichiche che però non hanno avuto diritto alla pensione di invalidità, 200 mila sono coloro che sono in pensione ma che accedono all’aiuto perché il loro assegno sotto il livello della soglia di povertà. In sostanza più della metà dei percettori del reddito non sono occupabili. Tra l’altro questo non significa che i criteri del reddito di cittadinanza siano tali da riuscire a intercettare tutti i bisognosi, tanto è vero che per farlo sono in corso sperimentazioni soprattutto a livello locale con Anci, Caritas e Comunità di Sant’Egidio, che incrociano i dati dell’istituto di previdenza con quelli dei comuni.

Un sistema squilibrato

Al netto dei precari, la pandemia ha significato la perdita dell’impiego soprattutto per i cosiddetti “indipendenti”, ma ha anche impoverito molti altri. Il calo dei redditi prodotti dai lavoratori italiani ammonta a 33 miliardi di euro. Questa diminuzione è stata mitigata dagli ammortizzatori sociali messi in campo ad hoc per la pandemia: se non ci fosse stata la cassa Covid, i contributi sarebbero crollati del 60 per cento. La pandemia ha dimostrato, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno l’assenza di tutele per precari e autonomi, che è stata solo parzialmente tamponata dall’introduzione dell’Iscro e dalle altre misure di emergenza. «Emerge la reale e urgente esigenza di una riforma, non solo in ottica di semplificazione, ma anche in direzione di maggiore universalismo», si legge nel comunicato dell’istituto.

Il salario minimo

Ma considerata la tendenza degli ultimi decenni legata a una crescente precarizzazione del lavoro, nel suo rapporto l’Inps si schiera chiaramente per l’introduzione di un salario minimo, calcolandone anche l’apporto in termini di maggiori entrate. Secondo l’istituto di previdenza un salario minimo fissato a 9 euro l’ora corrisponderebbe a tre miliardi in più.

Questo anche a fronte di una situazione demografica che tra il 2019 e il 2020 vede ormai una proporzione di 100 giovani ogni 179 anziani, comportando rischi per il paese e anche per la sostenibilità del sistema di welfare, e ai cui squilibri contribuisce pesantemente una sistemica esclusione delle donne dal mercato del lavoro, che si traduce in un aumento dei contratti part time.

Le stime basate sui dati in possesso dell’istituto sul ricorso al congedo di paternità spiegano che le probabilità che un uomo ne faccia uso arrivano al 22 per cento, nel caso in cui la donna abbia uno stipendio corrispondente all’80–100 per cento di quello del marito e toccano il 25 per cento tra il 100 e il 150 per cento. Se le donne hanno sulle loro spalle il carico esclusivo dei figli, insomma, è anche perché sono trattate peggio nel mondo del lavoro: un cortocircuito.

Il dibattito sulle pensioni

Di fronte a questa fotografia, l’Inps propone tre ipotesi di riforma della flessibilità in uscita delle pensioni per diminuire i costi sul sistema, tra cui l’uscita con 41 anni di contributi a prescindere dall’età, l’uscita a 64 anni con 36 anni di contributi, sempre basata sul calcolo contributivo, e infine l’anticipo della sola quota contributiva a 63 anni di età. I sindacati uniti di fronte a queste ipotesi hanno subito chiesto con urgenza un tavolo di confronto. Ai giovani senza rappresentanza devono bastare le parole del ministro del lavoro, Andrea Orlando: «Sulle pensioni il dibattito è eccessivamente concentrato sulla flessibilità in uscita, io penso che dovremo concentrarci sulle prospettive degli assegni delle nuove generazioni». E non sono rosee prospettive.

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