Le dimissioni di Francesco Gaetano Caltagirone da vicepresidente del consiglio di amministrazione delle assicurazioni Generali sono rumorose ma anche coerenti con tutto quello che Caltagirone ha fatto negli ultimi mesi, almeno a partire dall’aprile scorso quando, con meno coerenza, non si presentò all’assemblea del gruppo. Caltagirone se ne è andato sbattendo la porta da un gruppo che gestisce più di 600 miliardi di capitali ed è anche il primo detentore di titoli del debito dello stato italiano, dichiarando di essere osteggiato e ribadendo le accuse di poca trasparenza nei confronti del cda del gruppo triestino. Accuse rapidamente rispedite al mittente da una nota della società.

Il suo gesto, pur zavorrando il titolo di Generali in Borsa, almeno ha portato chiarezza in una battaglia ormai dichiarata da tempo, e in un contesto in cui la chiarezza sembra molto formale e molto poco sostanziale.

Il ruolo di Mediobanca

Il conflitto sulla guida di Generali nasce dalla contestazione da parte dei pattisti Caltagirone, Del Vecchio e fondazione Crt, arrivati ormai a oltre il 16 per cento del capitale, dell’influenza di Mediobanca sulle scelte di quella che viene definita una public company.

Di questa influenza si sono scritti fiumi di inchiostro, viene data quasi per scontata, senza essere smentiti si può affermare che cinque consiglieri di cui uno è il direttore generale, Clemente Rebecchini, sono riconducibili a Mediobanca, nonostante formalmente non risulti da nessuna parte.

Del resto, è così da anni, per la lista del consiglio di amministrazione di Generali, si pesca spesso tra i consulenti e i grandi avvocati che si muovono attorno a piazzetta Cuccia. Ma anche sull’altro fronte c’è il caso di Romolo Bardin, considerato formalmente un consigliere indipendente, che da amministratore delegato della Delfin di Del Vecchio, indipendente nella sostanza non è.

Azionisti senza azioni

LaPresse

I due fronti, armati l’uno contro l’altro, al momento hanno un peso simile: negli ultimi mesi i pattisti hanno rastrellato titoli fino ad arrivare a più del 16 per cento del capitale, di cui l’8 per cento in mano a Caltagirone.

Mediobanca da parte sua ha in mano il 17,2 per cento del capitale azionario. La quota che Mediobanca detiene realmente però si ferma a poco meno del 13, l’altro 4,4 del capitale di Generali, circa 70 milioni di azioni, è il frutto di una operazione di prestito titoli annunciata a fine settembre e che durerà fino all’assemblea della prossima primavera.

È la nuova frontiera: dai capitalisti senza capitali siamo passati agli azionisti senza azioni, non hanno i titoli ma li fanno pesare nelle assemblee dei soci. Attorno a Generali sono in molti.

Caltagirone ha risposto per le rime a Mediobanca utilizzando per l’acquisto di parte dei suoi titoli contratti derivati che ne prevedono già la vendita con scadenza a giugno. A novembre anche il gruppo De Agostini ha annunciato la vendita di una quota dell’1,44 ma su cui manterrà i diritti di voto fino all’assemblea.

C’è da dire, poi, che la sua quota “reale” vale moltissimo per Mediobanca: la relazione sulla gestione al 30 giugno 2021 registrava un aumento di mezzo miliardo del valore della partecipazione, per cui Mediobanca utilizza il metodo contabile del patrimonio netto usato soprattutto per le partecipazioni su cui si ha una influenza significativa.

I quesiti alla Consob

Nella foto Gaetano Caltagirone, Philippe Donnet (Vincenzo Livieri - LaPresse)

In questa situazione in cui forma e sostanza corrispondono poco, le iniziative dei protagonisti del conflitto rivaleggiano in creatività. Caltagirone ha presentato alla Consob una serie di quesiti, a cui l’autorità per i mercati e la borsa ha risposto solo parzialmente, introducendo un altro elemento di complessità a cui il mercato per forza di cose sta guardando. I quesiti non sono previsti da alcuna normativa e la Consob risponde solo per prassi.

Caltagirone ha sollevato il tema della composizione della lista unica del consiglio di amministrazione, il tema della mancata condivisione all’interno del consiglio di informazioni privilegiate e, ovviamente, il tema del prestito titoli che dà a Mediobanca un vantaggio formale ma non sostanziale in assemblea.

Consob ha risposto implicitamente a Caltagirone dando indicazioni più precise su come gestire la composizione e la procedura di nomina di una lista del consiglio di amministrazione, procedura preferita dalle public company che di solito dovrebbe avere una attenzione maggiore alla indipendenza e agli equilibri di composizione della lista. Generali ha risposto cambiando la procedura di nomina in modo, dicono da Trieste, da tutelare la compagnia dal conflitto tra le parti in corso.

Ovviamente dalle parti di Caltagirone la pensano al contrario: la lista del consiglio di amministrazione, che verrà appoggiata da Mediobanca, non è adeguata in una situazione in cui ci sono blocchi di azionisti contrapposti. E certamente i pattisti presenteranno la loro di lista.

Formalmente ancora una volta tutto è regolare, anzi più regolare di prima. Le altre risposte della Consob, che alcuni descrivono spaccata al suo interno, non è nemmeno detto che arrivino. Più passa il tempo e più ci si avvicina all’assemblea delle Generali, più delicato risulterebbe una indicazione dell’autorità.

Anche qui poi interviene la differenza tra forma e sostanza: il prestito titoli è una pratica diffusa, utilizzata da investitori che hanno poco interesse a far valere i voti nelle assemblee, ma invece ne hanno nei profitti, compresi quelli che vengono dal “noleggio” di azioni. Solo che di solito non determinano il destino di un’assemblea di colossi come Generali. La forma è regolare, la sostanza è un brutto spettacolo.

 

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