Sono un piccolo risparmiatore per l’ennesima volta deluso da Piazza Affari perché un’altra volta una società quotata è stata oggetto di offerta pubblica di acquisto a un prezzo che ritengo non corretto, beffando i piccoli azionisti. Parlo questa volta delle azioni de La Doria, società italiana leader nei sughi di pomodoro, legumi in scatola e succhi di frutta su cui il gruppo Investindustrial di Andrea Bonomi ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto a un prezzo di 16,5 euro per azione. Un prezzo molto a sconto rispetto ai competitor e molto al di sotto al prezzo pre Opa e non è la prima volta che da piccolo azionista mi ritrovo in questa situazione a Piazza Affari, dove viene offerto un prezzo poco corretto agli azionisti di minoranza con il messaggio implicito che o consegni le azioni al prezzo che decide il compratore oppure sei incastrato in una società quotata.

Quello che sostengo pensa che sia esagerato e trova quest’Opa corretta? Perché sempre più aziende quotate levano le tende dalla Borsa italiana invece che mettercele?

F.


Caro F.

la sua lettera che tocca il tema delle quotazioni a Piazza Affari e quello del delisting (ovvero le società che invece fanno le valigie) mi ha ricordato quando avevo ancora i capelli e Bettino Craxi, all’epoca presidente del Consiglio, visitò nel 1985 la Borsa di Milano. Quell’anno Piazza Affari saliva come nessuna al mondo – e mai più ripeté quell’exploit che la portò a raddoppiare di valore –, e il segretario del Psi colto dall’entusiasmo di quello che il giornalista Giuseppe Turani chiamava allora «il secondo miracolo economico italiano» predisse che avremmo avuto nel giro di pochi anni almeno mille società quotate a Piazza Affari perché «la modernizzazione del paese è un processo in cammino, un processo che io giudico irreversibile».

Il listino superò per la prima volta le 200 società quotate nel 1986, finendo a 235 nel 1989. Oggi a Piazza Affari nel listino principale sono quotate persino meno società per una capitalizzazione complessiva di 725 milioni di euro circa. Da sola Google, ovvero Alphabet, società nata nel 1997 da due dottorandi alla Università di Stanford, in California ha un valore circa doppio.

Qualcosa deve essere andato storto e il capitalismo italiano è evidentemente reversibile. Poche settimane fa è stata pubblicata una ricerca della casa d’investimenti Intermonte in collaborazione con la School of management del Politecnico di Milano che spiega i motivi per cui da alcuni decenni in Borsa gli abbandoni sono poco inferiori alle nuove quotazioni (Ipo per dirla all’americana, ovvero Initial public offering). Tanto che i delisting hanno causato un’importante perdita di capitalizzazione di Piazza Affari superiore negli ultimi cinque anni a 55 miliardi di euro. Una cifra enorme.

La Doria è uno degli ultimi casi ma qualche settimana fa l’ex Banca Intermobiliare ha sancito l’exit e la scorsa settimana anche la banca dei Nattino, Finnat, ha annunciato il “buonanotte suonatori”.

Secondo questo studio intitolato Sliding Doors: il flusso di listing e delisting sul mercato azionario di Borsa Italiana, solo negli ultimi vent’anni le società che hanno lasciato Piazza Affari sono state 336 (107 negli ultimi cinque anni) a fronte di 448 nuovi collocamenti. Numeri che portano apparentemente a un saldo positivo di 112 unità. Tuttavia, se si spacchetta il dato tra il listino principale e quello del listino delle “piccoline” (ora Euronext growth market, prima Aim Italia) si evidenzia che nel primo caso il bilancio tra entrate e uscite è di meno 83, mentre nel secondo è positivo per 195.

È evidente quindi (e questo accade soprattutto in Italia) un trend di costante arretramento del numero di società quotate dal listino principale, a fronte di una forte crescita del segmento meno regolamentato.

Piazza Affari perde appeal soprattutto tra le aziende di una certa dimensione (il listino ex MTA) e dove il modello di business è avviato mentre invece diventa una carta che si giocano soprattutto le aziende più piccole (small cap) e sulla carta innovative che tentano la “fortuna” per avere più visibilità e perché è più facile in questo modo raccogliere capitali magari a multipli generosi.

Le categorie

Ma perché le società quotate di medie e grandi dimensioni spariscono? Qual è il morbo che gira a Piazza Affari?

Lo studio di Intermonte e del Politecnico di Milano suddivide correttamente le delistate in 4 categorie. Le sconfitte (il 29 per cento del totale) ovvero le società fallite o alle prese con un dissesto finanziario o escluse per mancanza dei requisiti; le ristrutturande (14 per cento), aziende che vengono fuse in altre dello stesso gruppo, a loro volta quotate; le pentite (27 per cento dei delisting) che non hanno ritenuto non più conveniente restare quotate e hanno approfittato del prezzo basso a Piazza Affari per riportarsi in casa il controllo; e infine le prede, ovvero le società acquisite da soggetti esterni (magari proprio “private equity”) con il conseguente ritiro delle azioni dal mercato.

A eccezione delle prede, stando alla ricerca, in tutti gli altri casi di delisting il bilancio per gli investitori che avevano aderito alle Ipo è abbastanza deludente. Il premio offerto nelle Opa volontarie molto spesso è nei fatti uno sconto a scapito di investitori e mercato.

Lo studio evidenzia come rispetto al prezzo dei tre mesi precedenti, il prezzo offerto ai piccoli azionisti sia in media più generoso per le prede (+28,9 per cento) rispetto alle pentite (+16,5 per cento) ma il caso La Doria se ne discosta.

La Doria si può inserire nel girone delle società “preda” ed è infatti in procinto di passare sotto il controllo di un’importante società di private equity come Investindustrial guidata da Andrea Bonomi, figlio e nipote d’arte, il cui impero spazia su tre continenti (Europa, Usa, Asia) con partecipazioni in quasi ogni settore. Dai prodotti per l’infanzia – Artsana, Chicco – ai tappi di Guala Closures, dalle vasche Jacuzzi ai parchi di divertimento – PortAventura a Barcellona –, dal lusso di Ermenegildo Zegna alla formazione universitaria, come Campus Training.

L’offerta su La Doria, una bellissima storia di impresa e non solo del meridione, è giudicata in effetti da molti analisti finanziari indipendenti particolarmente avara.

Secondo Maurizio Mazziero (ma non è il solo a pensarla così), analista finanziario indipendente e fondatore del sito Mazziero Research, il titolo vale molto di più, tanto che nei mesi precedenti all’annuncio dell’Opa diverse valutazioni di case d’investimento indicavano in oltre 21 euro il corretto valore: «Ancora una volta il capitalismo italiano mostra di non essere all’altezza delle best practices del mondo della finanza, i piccoli investitori vengono considerati parco buoi bistrattati da gruppi industriali dalle tasche strette che vogliono ottenere ingiusti vantaggi a spese di altri. Stupisce inoltre che una proprietà accorta come quella dei fratelli Ferraioli si abbassi a svendere un loro gioiello familiare creato con sudore e sacrifici in tanti anni, dietro la promessa di un coinvolgimento di alcuni dei soci venditori nella gestione del gruppo La Doria post-operazione. Gli azionisti di minoranza rischiano a questi prezzi di vedersi patrimonialmente espropriati a prezzi chiaramente non adeguati, e per il 2021, a fronte di un utile netto di 46,72 milioni di euro, la beffa ulteriore è stata la comunicazione da parte della società che dopo undici anni di distribuzione ininterrotta tutto il profitto realizzato verrà incamerato senza nessun vantaggio per i piccoli azionisti».

Va detto che la società La Doria è stata gestita sul fronte reddituale in maniera molto positiva in questi anni dai fratelli Ferraioli che hanno portato questa società con sede ad Angri in provincia di Salerno a diventare un caso di scuola in tutta Europa in un settore non facile (anche perché la filiera del pomodoro non gode certo di un’eccellente reputazione), e anche in Borsa. Dal 2003 il titolo è più che decuplicato (un ritorno annuo di oltre il 13 per cento) mentre Piazza Affari in termini nominali raddoppiava solo di valore (2,65 di rendimento all’anno).  

Lo stesso titolo La Doria prima dell’annuncio del lancio dell’offerta pubblica d’acquisto aveva oscillato nei tre mesi precedenti fra i 17,5 e i 19,5 euro e quindi l’Opa al ribasso si è rivelata non proprio una bella notizia per i possessori del titolo ma quasi una beffa. Che è si è ulteriormente allargata qualche settimana fa quando il consiglio di amministrazione de La Doria ha annunciato che il dividendo riguardo l’esercizio 2021 non sarà distribuito ma resterà nella società. Qualcosa che ricorda la celebre scena della pernacchia di Alberto Sordi nel film I vitelloni, dove invece che «Lavoratoriiii» si potrebbe dire «Risparmiatoriiii».

© Riproduzione riservata