A tutto gas verso un futuro a zero emissioni. Sembra paradossale, soprattutto adesso che il prezzo del gas metano è volato a livelli stratosferici, ma l’Europa e in particolare l’Italia punteranno sempre di più su questa fonte energetica per mettere in sicurezza il sistema elettrico, reso vulnerabile dall’aumento della produzione con l’eolico e il solare. A suggellare questa tendenza è stata la Commissione europea che nella tassonomia verde intende inserire, a certe condizioni, anche la produzione di elettricità con il gas e con il nucleare.

La tassonomia della Commissione è una lista delle fonti ritenute sostenibili in vista della neutralità climatica da raggiungere entro il 2050. È un elenco importante, perché le fonti indicate in quella classificazione potranno ottenere finanziamenti privati più facilmente, visto che saranno considerate positive per l’ambiente. La cornice è il regolamento europeo 852 del 2020 che, come recita l’articolo 1, «stabilisce i criteri per determinare se un’attività economica possa considerarsi ecosostenibile, al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento».

Dopo mesi di consultazioni il 1° gennaio 2022, la Commissione si è espressa in a favore dell’inserimento di gas e nucleare nella lista delle fonti energetiche che accompagneranno l’Unione nella sua transizione verde. Nelle prossime settimane la Commissione riceverà le osservazioni delle parti coinvolte e poi deciderà. Ma intanto la sua presa di posizione ha scatenato le proteste delle organizzazioni ambientaliste e di alcuni Paesi, visto che il gas produce CO₂ e il nucleare scorie radioattive.

Anche se può risultare sgradevole, l’indicazione della Commissione è realistica seppur non molto efficace a livello pratico: è realistica perché nella fase di transizione occorre trovare il modo di sostenere chi produce elettricità in modo programmabile e meno inquinante rispetto al carbone; è poco efficace, almeno per l’Italia, perché le centrali a gas che potrebbero fregiarsi dell’etichetta di “ecosostenibile” dovranno avere emissioni inferiori a 270 grammi di CO₂ equivalente per kilowattora, limite che dal 2030 dovrà scendere a 100 grammi per kilowattora. Un livello difficilmente raggiungibile con le attuali tecnologie, sostengono gli operatori consultati da Domani. Tanto è vero che Italia e Germania vorrebbero addolcire questi limiti.

Raffica di centrali a metano

LaPresse Carlo Cozzoli

Comunque, indipendentemente dalle decisioni dell’Europa, in Italia ci sono decine di progetti di nuove centrali a gas o di trasformazioni di impianti dal carbone al metano.

L’Enel per esempio ha dismesso complessivamente quasi due gigawatt di capacità a carbone entro il 2021, che in parte verranno rimpiazzati dal gas. Ed entro il 2025 la produzione elettrica sarà completamente decarbonizzata, creando un “buco” di altri 6 gigawatt di capacità che rischia di creare non pochi problemi all’adeguatezza del sistema elettrico italiano.

Già un anno fa in un’audizione al Senato il gestore della rete nazionale Terna aveva avvertito che, «in condizioni climatiche estreme il sistema elettrico italiano, in assenza di import, risulta non adeguato».

Per compensare la chiusura delle centrali a carbone sono in lista d’attesa ben 48 progetti di centrali a gas (tra rinnovamenti e trasformazioni di impianti a carbone) censiti dal Sole 24 Ore per un totale di quasi 20 gigawatt di potenza. Le maggiori aziende proponenti sono, oltre ad Enel, A2A, Sorgenia, Eni, Edison, Engie. Gran parte di questi impianti dovrebbe sorgere in Nord Italia e nel Mezzogiorno.

Una vera e propria corsa alla produzione di elettricità con il gas. Che potrebbe apparire suicida: perché un’impresa dovrebbe investire in una centrale che funziona a intermittenza, quando idroelettrico, eolico e fotovoltaico non coprono la domanda, e il cui futuro nel giro di una ventina d’anni è molto incerto?

Come conferma Terna, «l’attuale parco di generazione termoelettrica ha la necessità di essere rinnovato, con impianti più moderni, meno inquinanti e con prestazioni migliori. Impianti che si troveranno a funzionare, nel prossimo futuro, in un numero di ore sempre minore, sostanzialmente per far fronte ai periodi di scarsa producibilità delle fonti rinnovabili non programmabili (eolico e fotovoltaico) sempre più presenti».

La soluzione per remunerare questi impianti è racchiusa in due parole inglesi: capacity market. Si tratta di un meccanismo, approvato nel giugno 2019 dalla Commissione europea, che prevede una remunerazione per le centrali che si impegnano a garantire disponibilità per la produzione di energia nei momenti in cui la rete ne ha bisogno.

Foto AP

In Italia è Terna ad approvvigionarsi di questa capacità di energia elettrica attraverso dei contratti a termine aggiudicati attraverso aste competitive. I produttori di energia che partecipano a queste aste hanno l’obbligo di offrire la capacità alla rete e il diritto di ricevere da Terna un premio fisso annuo, che poi viene scaricato sulle bollette degli italiani.

Lo stanziamento è previsto in circa 1-1,4 miliardi di euro all’anno per i prossimi 15 anni. Il ministero dello Sviluppo economico sostiene per la verità che con questo sistema si risparmiano circa 2 miliardi all’anno. Sarà, quello che è sicuro è che si potrebbe fare a meno di alcune delle nuove centrali a gas se gli ostacoli burocratici alla realizzazione di impianti rinnovabili fossero rimossi.

Caccia al giacimento tricolore

LaPresse

Ma dove si procureranno il metano queste nuove centrali che sostituiranno nella transizione verde gli impianti a carbone? Importandolo dall’estero, in particolare dalla Russia: dei 70 miliardi di metri cubi di gas che ogni anno consuma l’Italia solo il 5 per cento circa viene estratto nel nostro Paese, succhiato da un migliaio di pozzi distribuiti su svariate decine di giacimenti.

Ora che il prezzo del gas si è impennato, politici e lobby del settore hanno riaperto il dossier-estrazioni: i ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti hanno sostenuto la necessità di aumentare la produzione nazionale di gas per ridurre la bolletta energetica e le emissioni legate al trasporto. E subito sono circolate ipotesi su quanto potrebbe salire l’estrazione made in Italy: si ipotizza un raddoppio da 3,5 a 7 miliardi di metri cubi all’anno nel giro di un paio d’anni.

Previsioni ottimistiche che non tengono conto di due elementi: il primo è che per sfruttare di più un giacimento occorre realizzare nuovi pozzi e questo con le regole attuali non si può fare; il secondo, legato al primo, è che ogni possibile investimento è appeso al contenuto di un documento chiamato Pitesai (Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee), predisposto dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente e condiviso con le Regioni e gli enti locali.

Il Piano individua le aree in terraferma e in mare dove sarà possibile svolgere attività di ricerca e produzione di idrocarburi. Il problema è che se ne parla dal 2019 ma il documento non ha ancora visto la luce. E tutta la filiera dell’oil&gas è lì che aspetta speranzosa di poter aprire pozzi già pronti e tappati, o di fare nuovi buchi.

Dietrofront atomico

La Centrale nucleare di Tihange, in Francia. Credit: JMQuinet/Reporters LaPresse -- Only Italy

Nella bozza sulla tassonomia verde dovrebbe rientrare anche il nucleare. Un’indicazione che ha provocato la reazione pavloviana della Lega di Matteo Salvini, pronta addirittura a lanciare un referendum per il ritorno dell’energia nucleare in Italia. Naturalmente nel nostro Paese una scelta del genere non potrà più essere fatta dopo i due referendum “no nuke” del 1987 e del 2011.

In Italia ormai è un problema perfino installare una pala eolica, figurarsi un reattore. Ma nel resto del mondo, e in alcuni Paesi europei, l’energia atomica sta vivendo una fase di rilancio per una ragione molto semplice: l'urgenza di combattere la crisi climatica richiede un maggior utilizzo di energia elettrica e quest’ultima deve essere prodotta senza emissioni. E dopo l’idroelettrico, l'energia nucleare è la seconda fonte mondiale di energia a zero emissioni di carbonio.

In molti Paesi si pensa dunque che il percorso verso le emissioni nette zero è più rapido se il nucleare fa parte del mix di soluzioni. Il risultato è che a fronte della chiusura tra il 2018 e il 2020 di 26 reattori con una capacità totale di 20,8 gigawatt, ne sono stati inaugurati 20 con una capacità totale di 21,3 gigawatt.

Attualmente sono in costruzione 55 reattori nucleari in 33 Paesi: in maggioranza si trovano in Asia, ma qualcosa si sta realizzando anche in Europa: in Finlandia si è appena chiuso il cantiere della centrale di Olkiluoto, in Slovacchia sono in costruzione due reattori, quattro in Russia, due nel Regno Unito, uno in Francia. Progettano nuovi impianti la Slovenia, la Polonia, la Romania, la Bulgaria. Mentre in Svizzera e Spagna, nonostante l’ostilità verso il nucleare, è stata aumentata la capacità degli impianti esistenti.

La Germania invece dovrebbe uscire definitivamente dal nucleare alla fine di quest’anno chiudendo le sue 6 centrali. E il Belgio spegnerà i suoi sette reattori entro il 2025, anche se non esclude di utilizzare in futuro impianti nucleari di nuova generazione. Si tratta in particolare dei minireattori su cui punta l’Ansaldo Nucleare, che collabora con Westinghouse per lo sviluppo di uno “Small modular reactor” per il governo inglese, e con l’Enea per un progetto simile denominato Alfred e finanziato dalla Comunità europea.

Di fronte a questo complesso quadro energetico, che linea politica dovrebbe tenere l’Italia riguardo alla tassonomia verde europea? Esprimersi a favore del gas, osteggiato dalle organizzazioni ambientaliste? O schierarsi contro il nucleare, visto che da noi è bandito? Forse è meglio che si mantenga neutrale.

Tutto sommato anche a noi conviene, almeno per ora, che nel resto del continente ci siano le centrali atomiche: può non far piacere, ma se oggi l’Europa emette solo l’8 per cento delle emissioni globali di CO₂ il merito è anche dei suoi reattori nucleari.

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