Il Pnrr, acronimo entrato ormai nell’uso comune, sta per Piano nazionale di ripresa e resilienza. La ripresa, per risollevare i paesi dell’Unione europea dalla pandemia; la resilienza, per renderli idonei ad adattarsi alle contingenze critiche, superandole e andando avanti.

Ma l’Italia è in grave ritardo nella spesa dei fondi stanziati. Il fallimento nell’impiego delle risorse del Pnrr rischierebbe di minare non solo ripresa e resilienza, declinate sia a livello europeo sia a livello nazionale, ma anche la fiducia dei cittadini verso le istituzioni. Ed è l’ultima cosa di cui c’è bisogno in un momento come questo, dopo l’emergenza sanitaria, con le difficoltà connesse alla guerra in Ucraina, i disastri causati da eventi naturali, di cui le alluvioni in Emilia Romagna rappresentano solo l’ultimo esempio.

Le riforme

Il piano consta di riforme finalizzate a consentire di procedere con rapidità all’investimento dei fondi europei. Sono state concepite come propedeutiche alla spesa, per un impiego più efficace ed efficiente.

Il fallimento della spesa dei fondi Ue significherebbe, innanzitutto, l’attestazione dell’incapacità del paese di riformare e riformarsi. Le riforme previste dal Pnrr hanno formalmente rispettato le scadenze previste dal cronoprogramma, ma in mancanza di indicatori di efficacia fissati ex ante e utilizzati ex post per verificare se quanto sancito a livello regolatorio avesse funzionato, ci si sta rendendo conto solo ora, in concreto, che le strutture preposte non sono in grado di impiegare i fondi nei tempi previsti. Come abbiamo raccontato su queste pagine, le riforme non sono riuscite a far procedere la pubblica amministrazione come sarebbe servito nella gestione dell’ingente mole di fondi proveniente dall’Ue. E le semplificazioni delle procedure per la realizzazione dei progetti del Pnrr non sono risultate sufficienti, a fronte di una P.A. incapace di acquisire competenze necessarie alla spesa delle stesse risorse stanziate. Basterebbe questo a sottolineare come le riforme operate in quest’ambito non sono state efficaci ed efficienti quanto sarebbe servito.

Detto ciò, il piano è stato concepito per definire un modello sostenibile dal punto di vista sociale, basato su due grandi transizioni, quella ecologica e quella digitale, nonché sulla riduzione dei divari economici e territoriali. Indulgere nella discussione sui ritardi, e non concentrarsi invece su ciò che serve per un’accelerazione necessaria a evitare i ritardi, fa emergere un atteggiamento rinunciatario verso obiettivi che sono irrinunciabili.

La sfiducia nelle istituzioni

Il fallimento del piano rischia allora di allontanare i cittadini dalle istituzioni, attestando come sia impossibile rimettere in sesto il Paese, nonostante l’alternanza tra i governi. 

Le persone, specialmente nei momenti di crisi, sono interessate più alla soluzione dei problemi che alla connotazione politica di chi deve risolverli. Il Pnrr ha riguardato tre governi diversi, due politici – di colore differente – e uno tecnico. Il fatto che l’eventuale fallimento sia imputabile a tre schieramenti diversi rappresenterebbe un duro colpo alla credibilità della politica e delle istituzioni, in generale, e contribuirebbe ad alimentare la disaffezione dei cittadini, già misurata dal crescente astensionismo elettorale. E quando le persone si allontanano dagli spazi di gestione della “cosa pubblica”, il rischio è che aumenti lo spazio occupato dal potere, con conseguente riduzione delle caratteristiche democratiche del sistema.

I contraccolpi a livello europeo

L’Unione europea ha investito risorse ed energie nel Pnrr. Se uno stato fallisse nella realizzazione del piano, non essendo in grado di spendere i fondi assegnati nei tempi e nei modi stabiliti, le conseguenze sarebbero rilevanti non solo per tale stato, ma per la stessa Unione.

Bruxelles ha puntato su ripresa e resilienza soprattutto dell’Italia, attribuendo una maggiore quantità di fondi rispetto ad altre nazioni, a causa delle condizioni economiche. Il fallimento dell’Italia rischia di tradursi nel fallimento dello stesso progetto europeo, che si fonda sul concorso di tutti i paesi che ne fanno parte al fine di affrontare le sfide comuni.

Il contributo dell’Unione al superamento della pandemia, fornendo agli stati membri i mezzi per fronteggiarla, ha rilanciato l’Europa e dimostrato qual è la sua vera funzione, al di là della gestione ordinaria. L’incapacità dell’Italia di far fronte agli impegni assunti minerebbe la fiducia nei suoi riguardi da parte dell’Ue.

Fiducia che già vacilla, ad esempio, a causa della perdurante mancata ratifica del Mes e della mancata messa a gara delle concessioni per i balneari, per cui pende sull’Italia una procedura d'infrazione. E queste mancanze sono responsabilità esclusiva del governo di Giorgia Meloni.

L’impasse

L’Italia si trova in una impasse. Molti progetti del Pnrr non paiono adeguati ed efficaci, essendo mancata a monte un’analisi di costi e benefici. Risultano eccessivamente frammentati, le amministrazioni non riescono a gestirli. Tutto questo non è stato valutato preventivamente e il governo Meloni se ne sta rendendo conto solo dopo sette mesi il suo insediamento.

La domanda è se la fiducia nell’Italia sarebbe più incrinata dalla rinuncia a parte dei fondi europei, una volta constatata l’impossibilità di spenderli efficacemente, o dal destinare ogni energia nel tentativo di rispettare comunque gli impegni assunti. Qualunque risposta si decida di dare, dopo le opportune valutazioni, politiche e non, richiede un impegno di trasparenza verso i cittadini, spiegando motivazioni e conseguenze delle decisioni prese, specie di carattere economico, al di là di ogni propaganda.

Conseguenze che riguardano la crescita, gli impatti sulla fiducia dei mercati finanziari verso l’Italia, la persistenza dei divari tra le varie aree del Paese. La trasparenza finora è mancata, ed è il minimo che si può e si deve pretendere.

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