Questi ultimi anni verranno ricordati per la natura e gravità degli shock inusitati che hanno colpito le economie del mondo. La pandemia; la forte ripresa dovuta a politiche monetarie e fiscali espansive come mai in passato; il primo programma fiscale con mutualizzazione del debito in Europa; i tassi di interesse negativi e il quantitative easing delle banche centrali; l’esplosione inattesa dell’inflazione e il rapido aumento dei tassi; la guerra in Ucraina e la crisi energetica.

Eppure, se guardiamo alle stime di consenso degli economisti privati, non sembrerebbero anni eccezionali per l’Italia: la crescita del Pil nel 2022 è infatti stimata al 3,9 per cento, superiore al trend grazie ai fondi del Pnrr, per poi frenare allo 0,3 quest’anno (niente recessione quindi), e ritornare all’uno per cento nel 2024, in linea con la media storica degli ultimi decenni. Quanto alla disoccupazione, è prevista stabile poco sopra l’otto per cento nel triennio 2022-24. E l’inflazione dall’otto per cento di quest’anno si riporta intorno al due per cento in media nel 2024. Niente a che vedere con gli anni Settanta e Ottanta, o con la grande crisi finanziaria dei mutui subprime del 2008 e del nostro debito pubblico nel 2011-12. Non si può non rimanere colpiti dalla grande discrepanza che esiste tra queste stime e la percezione della crisi che traspare nel paese, o dai rischi di recessione che scontano i mercati finanziari.

Crisi e previsioni

Alla luce dell’eccezionalità degli shock, non dovrebbe sorprendere che le previsioni macroeconomiche siano oggi difficili e incerte; né che le banche centrali abbiano abbandonato la pratica della forward guidance (in cui esplicitano lo scenario economico futuro alla base delle loro decisioni), per passare a politiche che dipendono dai dati man mano che questi sono resi noti. Ritengo quindi interessante capire quale anno sia stato il 2022 e che cosa ci si aspetta per il 2023 cercando di guardare all’economia con gli occhi degli imprenditori, ovvero con un approccio “dal basso” basato sui singoli dati aziendali, piuttosto che “dall’alto” delle stime macroeconomiche. Per farlo c’è bisogno delle informazioni di bilancio delle società quotate, in quanto gli analisti producono per queste società stime per il 2022, prima dell’approvazione dei bilanci ufficiali, e per il 2023. A loro volta gli analisti catturano quelle che sono le aspettative dei vertici societari, nonché il flusso costante di dati e informazioni rilevanti per le prospettive delle singole aziende.

Il campione

Ho quindi analizzato le stime di consenso (fonte Factset) di tutte le società quotate italiane con almeno 60 milioni di capitalizzazione (visto la preponderanza di piccole e medie imprese), escludendo le società finanziarie, come banche, assicurazioni e asset manager i cui proventi e utili dipendono da variabili finanziarie, le società di pubblica utilità, che dipendono da tariffe e regolamentazione, le società energetiche, per via del caro energia, le società di calcio e le pure holding di partecipazione.

In tutto 142 società: un campione forse poco rappresentativo della realtà delle aziende italiane a causa della storica riluttanza alla quotazione, la ridotta dimensione media, troppo spesso insufficiente per la Borsa, e la preponderanza dell’industria e del manifatturiero rispetto ai servizi. Ciononostante il campione di società è sufficientemente variegato, e il loro andamento necessariamente correlato col resto delle aziende italiane, in grado quindi dare indicazioni utili sul reale stato dell’economia italiana e le sue prospettive. Questo al fine di corroborare o meno le previsioni di natura macroeconomica.

Vista la grande discrepanza tra le società del campione per dimensione, settore industriale ed esposizione geografica dei ricavi, calcolo il dato della “società mediana” (SM), ovvero quella per la quale la metà del campione ha un dato più elevato (l’altra metà è più basso), e il dato della “società poco brillante” (SpB), ovvero quella che ha un dato peggiore del 75 per cento del campione (è la società al 25 esimo percentile). Il primo quesito riguarda la crescita del fatturato: nel 2022 quello della SM è cresciuto del 19,7 per cento, un vero boom, che rallenta al 9,4 nel 2023, rimanendo ben superiore all’inflazione attesa. Quanto alla SpB la crescita è inferiore, 9,8 e 4 per cento, ma ben lungi da quanto ci si aspetterebbe in una recessione.

Il secondo quesito riguarda la capacità delle imprese di trasferire sui prezzi i maggiori costi. Per verificarlo ho esaminato la crescita del margine operativo lordo (Ebitda) che rappresenta l’andamento dei ricavi meno tutti i costi operativi (escludendo quindi ammortamenti e accantonamenti che sono costi figurati): si stima che la SM sia riuscita a far crescere i ricavi molto più dei costi (segno della capacità di aumentare i prezzi) sia l’anno scorso che nel 2023, rispettivamente del +16,3 e +14,3 per cento; non così per la SpB che sofferto nel 2022 (-1,3 per cento la crescita dell’Ebitda), ma che dovrebbe più che recuperare quest’anno (+5,6 per cento). I dati precedenti mostrano la dinamica di costi e ricavi nel 2022 e 2023: ma quale è il livello dei margini in questi due anni rispetto al 2021, l’anno della forte ripresa? Per la SM, il margine netto (utile prima di interessi e tasse su ricavi) scende dall’11 per cento del 2021 al 10,2 nel 2022, per poi più che recuperare all’11,4 nel 2023. Margini sorprendentemente in continua crescita invece per la SpB, anche se su livelli assoluti inferiori: 4,6, 5,5 e 6,7 rispettivamente nel triennio.

Redditività sul capitale

I margini sono calcolati prima del costo degli interessi, delle imposte e delle poste straordinarie.

Se si vuole verificare l’andamento della redditività netta, bisogna guardare agli utili per azione che nel caso della SM sono cresciuti del 8,2 per cento nel 2022, pur venendo dopo un 2021 eccezionale; e si stima che accelerino al 13 quest’anno; non così per la SpB che registra un crollo del 25 per cento nel 2022, e nessuna crescita nel 2023.

La crescita degli utili segna però la variazione di velocità della redditività, non l’adeguatezza del suo livello rispetto al capitale investito: se dunque guardiamo alla redditività sul capitale della SpB, è in continua crescita nel triennio, dal 5,9 per cento del 2021, al 6,5, e al 8,2 del 2023, non certo da azienda in crisi anche se probabilmente ancora insufficiente a remunerare adeguatamente il rischio di impresa. Non così per la SM che nel 2023 si stima avrà una redditività dell’11,6 sul capitale investito, in rialzo rispetto al 11,2 del 2021, l’anno della forte ripresa.

Risultati ottenuti senza indebolire la struttura finanziaria delle imprese: il rapporto debito/Ebitda della SM è infatti rimasto storicamente contenuto e in discesa nel triennio (rispettivamente 0,7, 0,5 e 0,6); anche inferiore quello della SpB: -0,3 (ovvero una posizione di liquidità positiva) nel 2021, 0,2 e 0,3 nei due anni successivi.

Il campione delle società analizzate è poco rappresentativo e gli analisti tipicamente eccedono in ottimismo: ma l’impressione che se ne ricava dai dati aziendali è che le stime macroeconomiche, tutto sommato tranquillizzanti visto gli shock che hanno colpito l’economia europea, siano ragionevoli. E che il sistema delle aziende italiane, almeno stando alle stime degli analisti, sia stato capace di superare le grandi incertezze di questi ultimi anni.

Pessimismo della ragione

Anche se la parola fine non è stata ancora scritta.

Se fortunatamente gli shock non sembrerebbero aver messo a repentaglio la struttura del nostro sistema produttivo, è bene ricordare che rimangono immutati tutti i problemi e le arretratezze della nostra economia: cronica incapacità di crescita; elevata disoccupazione giovanile; bassa produttività e salari medi; divario nord sud; elevato debito pubblico ma scarsa qualità dei servizi forniti dallo stato e welfare carente.

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