Il presidente del consiglio Mario Draghi è intervenuto questa mattina alla Camera sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: in caso di crisi energetica «potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato» nella produzione di energia elettrica. A Montecitorio è scoppiato l’applauso dei parlamentari.

Il gas russo per ora copre intorno al 45 per cento del fabbisogno di metano nazionale. In caso di emergenza, per avere case calde, industrie in funzione ed energia elettrica per tutti i nostri consumi, non saremmo in grado di sopperire né con le energie rinnovabili né importando metano da altri paesi, e addirittura, non si escludono «sospensioni nel settore industriale, e regole sui consumi di gas nel settore termoelettrico – quindi per la produzione di elettricità -, dove pure esistono misure di riduzione del carico».

La maggiore preoccupazione di questi giorni riguarda il settore energetico, che è già stato colpito dai rincari di questi mesi: circa il 45 per cento del gas che importiamo proviene infatti dalla Russia, in aumento dal 27 per cento di dieci anni fa.
Draghi ha commentato: «Le vicende di questi giorni dimostrano l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni», inoltre «in Italia, abbiamo ridotto la produzione di gas» mentre il consumo nazionale «è rimasto costante tra i 70 e i 90 miliardi circa di metri cubi».

I flussi e i prezzi

«Qualunque governo responsabile deve contemplare l’emergenza qualora cessi l’arrivo di gas russo», spiega Massimo Nicolazzi, manager con esperienza nel trading di gas russo, oggi docente a Torino di economia delle risorge energetiche e senior advisor Ispi per la sicurezza energetica. Con i flussi ridotti ma non ancora interrotti, non si percepiscono ancora tensioni, spiegava la testata specializzata Staffetta Quotidiana qualche giorno fa: «Ma è solo perché la domanda è particolarmente bassa, sotto i 300 milioni di mc, soprattutto grazie alle temperature miti, tutt’altro scenario si avrebbe però nell'eventualità che le temperature tornino ad abbassarsi facendo salire la domanda giornaliera».

Mentre l’Italia continua a sperare nelle temperature miti e nella benevolenza di Putin, la Russia continua a dare prova di forza modulando i flussi, e, prosegue Nicolazzi, ci sta pure guadagnando: la settimana scorsa infatti, dopo aver raggiunto livelli molto bassi di esportazione, Gazprom, l’industria nazionale russa del metano, ha riaperto i rubinetti, e sono tornati a crescere i volumi esportati mentre il prezzo del gas intanto si era impennato.

Prezzi e sicurezza

Giovedì alle 16 la domanda italiana era di 271 milioni di metri cubi di gas: 42 da Russia, 22 dal Nord Europa, 62 dall’Algeria, 7 dalla Libia 27 dal Tap (che trasporta gas azero), 63 dagli stoccaggi – ovvero le riserve conservate nei giacimenti dismessi -  40 dal gas naturale liquido che importiamo via nave -, 8 milioni dalla produzione nazionale che l’Italia vorrebbe incrementare.

L’Italia e l’Europa stanno cercando di svincolarsi. La Commissione europea teme che, se da parte europea non c’è stato il coraggio di imporre sanzioni sul settore gas, potrebbe farlo la Russia. ll vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, ha riferito che è stata fatta un'analisi sulla possibilità che Putin tagli le forniture di gas all'Ue come ritorsione, e ha aggiunto che l'Ue sarebbe in grado di gestire la situazione ma non senza problemi.

Per Nicolazzi visti i guadagni di Mosca, sembra alquanto improbabile che si arrivi a una decisione di questo tipo, tuttavia «niente esclude che salti un tubo o che la Russia decida comunque di chiudere i rubinetti domattina».

Le vie alternative sul gas

«Dobbiamo procedere spediti sul fronte della diversificazione, per superare quanto prima la nostra vulnerabilità e evitare il rischio di crisi future» ha ribadito il presidente del Consiglio. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha detto in settimana che si ricorrerà a maggiori quote di Gnl, una possibilità che è pronta a percorrere anche l’Italia, ma non è così semplice.

Per l’Italia, il primo problema è infrastrutturale: «Intendiamo incrementare il gas naturale liquefatto importato da altre rotte, come gli Stati Uniti…tuttavia, la nostra capacità di utilizzo è limitata dal numero ridotto di rigassificatori in funzione». Ne abbiamo in funzione tre, a Panigaglia, Rovigo e Livorno. Ma per il futuro, ha detto Draghi, «è quantomai opportuna una riflessione anche su questo punto». Un’affermazione che ha portato a un altro applauso dell’aula.

Nicolazzi puntualizza: «Tutto sommato non è drammatico, l’importante sarebbe che il gas arrivasse in Europa e poi potrebbe essere spostato via tubo», ma a che prezzo? «Già in autunno si era scatenata un’asta nave per nave tra Asia ed Europa e il prezzo e schizzato, è una rissa che non possiamo scatenare». Il presidente statunitense Joe Biden si è detto disponibile ad aiutare, ma per ora si tratta solo di promesse.

Il governo intende poi incrementare i flussi da gasdotti non a pieno carico, come il Tap dall'Azerbaijan, il Transmed dall'Algeria e dalla Tunisia e il Green Stream dalla Libia. Inoltre «è pronto a intervenire per calmierare ulteriormente il prezzo dell'energia ove questo fosse necessario». Draghi ha detto all’aula che questo sì, già adesso, «è necessario». Già negli ultimi mesi sono stati messi in campo circa 15 miliardi per abbassare gli oneri di sistema, la quota fissa delle bollette dove finiscono i costi di trasporto, gli incentivi alle rinnovabili e all’efficienza, in modo da compensare almeno in parte l’aumento del metano.

Il ritorno del carbone

Di fronte all’emergenza, però, torna il carbone, che a dire il vero non se ne è mai andato. L’Italia prova da anni a fissare una data per lo spegnimento di otto centrali: Fiumesanto (Sassari) di proprietà di EP Produzione Spa; Monfalcone, in Friuli, di proprietà di A2A Spa; Torrevaldaliga Nord, a Civitavecchia, di proprietà di Enel Spa,  operativa dal 2009, e ancora Brindisi Sud, sempre di Enel Spa, così come la centrale del Sulcis (Sardegna), Fusina (Marghera), e La Spezia. Intanto La Spezia non è attiva da fine dicembre 2021 e A2a ha smesso di usare il carbone in quella di Brescia dal 2020.

Nel 2021 la produzione da carbone in Italia tuttavia è stata pari a circa 14 TWh, circa il 4,3 per cento del fabbisogno elettrico italiano e rappresenta circa il 4,9 per cento della produzione totale netta di energia elettrica italiana. A gennaio, con le intemperanze della Russia, il carbone ha coperto il 6 per cento delle vendite italiane nella borsa elettrica contro il 3,4 per cento di gennaio 2021.

A partire dalla Strategia energetica nazionale del 2017, varata dall’allora ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, si continuano a fissare ipotetiche date ambiziose per lo spegnimento. Dopo la Sen, l’Europa ci ha chiesto di mettere in campo il Piano nazionale integrato energia e clima, varato nel 2019. Lo stop al carbone è stato fissato più volte al 2025, ma mai in maniera perentoria. Poi ha cominciato a circolare l’ipotesi 2026, di recente l’amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, lo ha previsto per il 2027. Da oggi quella più inquinante di tutte è tornata a essere la fonte su cui l’Italia fa affidamento nei momenti di emergenza. 

A questo punto però, se la crisi non offre alternative nell’immediato, bisogna provare comunque a guardare avanti: da oggi e per il futuro, conclude Nicolazzi, «dobbiamo lavorare a decarbonizzare, ridurre l’uso delle fonti fossili il più possibile e diversificarle. Stiamo finanziando un paese invasore». Non è più un tema ambientale: «È un tema politico».

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