Come uno spettatore dei destini del paese, Mario Draghi ha lasciato che la vicenda delle concessioni balneari si svolgesse tutta senza che lui potesse essere indicato come il responsabile di alcunché.

Ha accolto le preoccupazioni dei partiti, ha rinviato il decreto Concorrenza, lo ha licenziato dopo le amministrative – si votava a Rimini, per dire – e ha lasciato che della questione si occupasse il Consiglio di stato riunitosi in adunanza plenaria il 20 ottobre, cioè pochi giorni dopo il ballottaggio delle comunali.

La sentenza è stata depositata martedì e impone la messa a gara delle concessioni dopo dicembre 2023 (il governo si era limitato a prevedere una «mappatura dei regimi concessori»). Una decisione che è arrivata solo grazie alla caparbietà di un sindaco, indipendente e non è un caso, che si è espressamente rivolto al Consiglio di stato. Da una parte la città di Lecce, dall’altra decine di associazioni di categoria, singole imprese, un comune e, per non farci mancare niente, anche la regione Abruzzo.

Istituzioni contro istituzioni

Non solo dunque una lobby comprensibilmente schierata a difesa dei propri interessi contro l’interesse generale, ma anche istituzioni contro istituzioni. Draghi nel frattempo attendeva, pure subendo in quasi silenzio il rituale richiamo dell’Ue. Più democristiano che liberale, più politico che tecnico.

Oggi il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, che quasi da solo si è caricato sulle spalle questa battaglia, assieme alle associazioni ambientaliste e ai pochi comitati Mare libero (uno è a Rimini e ci vuole coraggio) può festeggiare una sentenza «esemplare e confortante» che propone quello che aveva offerto ai balneari lo stesso primo cittadino: una proroga tecnica di qualche anno, fino alla fine del 2023, prima di nuove gare.

Una maggioranza balneare

Del governo, Salvemini dice: «Draghi ha considerato il fatto che tutte le forze della maggioranza di governo parlano la stessa lingua sul tema delle concessioni, non ci sono approcci differenti tra centrodestra e centrosinistra, basta fare la rassegna stampa degli ultimi mesi». Oggi il leader della Lega Salvini definisce la decisione del Consiglio di stato «da quarto mondo», il suo eurodeputato Massimo Casanova, proprietario del Papeete Beach, dice che «da questo momento in poi nessun investimento potrà essere messo in campo» da parte degli imprenditori. Lui pagava allo stato ben 10mila euro annui nel periodo pre-pandemia, a fronte di ricavi per 2,5 milioni nel 2018 e 3,2 nel 2019.

Forza Italia con i due deputati Roberto Cassinelli e Roberto Bagnasco parla di «accanimento contro i balneari in un momento critico». E basterebbe leggere cosa hanno scritto i massimi giudici amministrativi per sgomberare il campo da tutte queste argomentazioni: «Non vi è alcuna ragionevole connessione tra la proroga delle concessioni e le conseguenze della pandemia». Il Consiglio di stato, citando la lettera di messa in mora della Unione europea, spiega come siano proprio le proroghe a indebolire un settore chiave per lo sviluppo del paese, bloccando gli investimenti.

Intanto dalla Sicilia a guida centrodestra, nonostante la sentenza e con l’obiettivo di mantenere le concessioni intoccabili fino al 2033 come previsto dal governo gialloverde, fanno sapere che esiste una legge regionale e che la regione ha competenza esclusiva sul demanio marittimo. Quasi che l’isola non fosse sottoposta al diritto europeo (in difesa dei balneari possiamo avere anche la Sicilexit).

E se a destra conducono apertamente la loro battaglia, il centrosinistra sembra inabissato in mare. A parte Dario Stefàno della commissione Politiche europee che difende la messa a gara, il suo partito preferisce non prendere posizione. All’interno del Pd il “partito dei balneari” ha potuto contare sull’appoggio dei deputati Piero De Luca e Umberto Buratti. Mentre a Gallipoli la giunta di centrosinistra ha scelto proprio un balneare per gestire il demanio marittimo.

La politica del non fare

Secondo il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI) Draghi, con questo intervento, è tornato quello che, contro il suo stesso paese, ha firmato la lettera della Bce nel 2011, un paragone che spaccia gli interessi di pochi per gli interessi dell’Italia in lotta contro l’Unione europea.

Ma Draghi stavolta, invece di firmare lettere, ha lasciato fare ai giudici. È rimasto fermo e ha aspettato che la battaglia di un sindaco coraggioso riportasse la situazione alla normalità. A settembre, citando Beniamino Andreatta, il premier aveva elogiato «il coraggio delle scelte impopolari» che lui non ha avuto. «Abbiamo risposto noi all’appello», scherza Salvemini.

Il fare, semmai, inizia adesso. Sulle concessioni del demanio marittimo non esiste una banca dati nazionale e trasparente, e Draghi l’ha promessa. Finora le concessioni, bene pubblico, potevano persino essere rivendute tra privati. Manca, però, anche una legge nazionale sulle coste. Ed è quella che dovrà fare da cornice alle future gare. In ballo c’è anche un tema di cui si parla pochissimo: la spiaggia libera che potrà essere regolata nella nuova norma.

Le associazioni di balneari chiedono con urgenza un tavolo al governo, lamentando i tempi troppo brevi imposti dai giudici anche se è da dieci anni che l’Italia disapplica la direttiva Bolkestein sulle concessioni. Poco male, ora il premier potrà aprire il cantiere della riforma, come si dice in questi casi, e rivendicare di aver fatto tutto nell’interesse di tutti.

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