Quando la pandemia sarà finalmente terminata dovremo cercare di capire quale impatto abbiano avuto sui processi di secolarizzazione la sospensione di molte attività pastorali, la riduzione dei posti disponibili nelle chiese, la chiusura prolungata degli oratori, il rinvio di prime comunioni, cresime e matrimoni. Molti preti tracciano già oggi un bilancio apocalittico per la chiesa, sostenendo che molti praticanti non torneranno più, che tanti bambini hanno rinunciato per sempre all’iniziazione cristiana, che i fedeli più tiepidi hanno abbandonato i banchi delle chiese e che solo i più caparbi e motivati faranno ritorno in parrocchia.

Non mancano naturalmente, nei ranghi del clero, coloro che ritengono tutto questo non una disgrazia, ma una fortuna, che libera la chiesa dalla devozione stanca, meramente rituale e conformistica di tanti cattolici per abitudine e restituisce alla comunità cristiana quella dimensione di «piccolo gregge» giudicata ideale per un ritorno alle radici evangeliche.

La religiosità degli italiani

Ci sarà tempo per verificare l’esattezza di queste profezie «decliniste». Quel che possiamo fare oggi è invece valutare ancora una volta la situazione della religiosità italiana precedente l’inizio della pandemia. L’opportunità ci è data dalla presentazione, a cura di Critica liberale, del quattordicesimo «rapporto annuale sulla secolarizzazione», ricco di dati quantitativi ricavati da diverse fonti ufficiali. Tra i tanti numeri presenti nel rapporto ce ne sono almeno tre che, se osservati nella prospettiva temporale di almeno un quindicennio, segnalano in modo chiaro un distacco crescente degli italiani dalla tradizione cattolica.

Si tratta della percentuale di prime nozze di cittadini italiani (quindi non stranieri e non divorziati o risposati) celebrate con rito civile sul totale delle prime nozze, che passa dal 20,7 per cento del 2004 al 31,3 del 2018, di quella dei nati vivi fuori dal matrimonio sul totale dei nati vivi, passata da poco più del 10 per cento del 2002 al 32 per cento del 2018 e di quella delle «coppie non coniugate» sul totale delle coppie che appare quasi quintuplicata tra il 2000 e il 2018. Da questi tre dati si può ricavare un’indicazione piuttosto chiara: quando si tratta di decidere che forma dare alla vita di coppia e al contesto della genitorialità un numero crescente di italiani (nel complesso ancora minoritario) propende per un modello distante dalla tradizione religiosa cattolica.

Un rapporto stabile

Detto questo, va osservato che molti degli altri dati contenuti nel rapporto vanno in una direzione decisamente diversa, e cioè testimoniano di una sostanziale stabilità nel rapporto tra gli italiani e la chiesa cattolica. Si prenda, ad esempio, il dato relativo ai battesimi. È vero che la percentuale di battezzati tra zero e sette anni sul totale dei nati vivi è scesa, in poco più di quindici anni, di ben dieci punti, dall’85 per cento del 2002 al 76,8 del 2018, ma questo sembra più un effetto della crescita della quantità di bimbi figli di immigrati che nascono sul territorio italiano che dell’aumento significativo della decisione dei genitori italiani di non battezzare i loro piccoli (tra l’altro, il dato è ormai stabile da una decina d’anni). Lo stesso discorso vale per prime comunioni e cresime, la cui diminuzione in cifra assoluta è, almeno in parte, spiegabile con il calo demografico degli ultimi anni.

Molto elevato rimane anche il numero di ragazzi che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica a scuola, sceso in dieci anni, dal 2008 al 2018, di soli cinque punti percentuali, dal 91 all’86 per cento. Una conferma della persistente solidità del legame tra gli italiani e la chiesa cattolica si ricava infine dalla lettura dei dati relativi alla destinazione dell’8 per mille. Nel 2000 erano un terzo (esattamente il 33,41 per cento) i contribuenti che manifestavano la volontà di destinarlo alla chiesa cattolica; nel 2018 è stata una percentuale di poco inferiore: il 31,8 per cento.

In definitiva, il distacco degli italiani dalla chiesa cattolica è molto meno consistente e veloce di quel che si afferma in molte analisi improvvisate e impressionistiche nelle quali si narra di un esodo di massa dei nostri connazionali dalla tradizione che per secoli ha caratterizzato il paesaggio religioso della penisola. Dobbiamo ammettere che la frattura investe più talune sfere (ad esempio, il matrimonio) che altre (ad esempio l’educazione religiosa dei figli: il catechismo e i sacramenti) e riguarda maggiormente, come ci dicono altre ricerche, le generazioni più giovani, gli under 40, rispetto a quelle più anziane, gli uomini rispetto alle donne.

Per giunta essa implica tanti altri piani che non sono visibili in statistiche come quelle presentate nel rapporto e che riguardano anche la fede e non solo la pratica, la dimensione intima e valoriale e non solo quella pubblica e dei comportamenti e quindi non solo l’andare a messa la domenica o il pregare, ma anche il credere in Dio, le concezioni dell’aldilà, le immagini del peccato e del male, eccetera. Sul tema, si veda l’ottimo volume di Roberto Cipriani, La fede incerta. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia. Per non parlare del tema ancora più complesso delle cause, dell’individuazione di quel che determina in ultima istanza l’avanzata o la ritirata della faglia.

L’istituzione

Da ultimo è interessante rivolgere lo sguardo all’altro capo del rapporto, all’istituzione, alla chiesa cattolica. Il rapporto contiene molti dati interessanti anche su questo versante, in particolare sul «personale» a disposizione dell’organizzazione. Anche qui non manca qualche dato nettamente positivo per la chiesa: ad esempio quello che riguarda i diaconi, praticamente raddoppiati in vent’anni. In altri comparti abbiamo invece assistito a un calo drammatico: ad esempio, la quantità di «religiose» in 20 anni è diminuita in modo drastico, dalle 113.295 unità del 2000 alle 75mila scarse del 2018. Un crollo verticale, infinitamente superiore a quello dei sacerdoti diocesani (non riportato nel rapporto) scesi, negli ultimi vent’anni, di sole tremila unità, da 35mila a 32mila.

È vero che l’età media del clero è cresciuta e che la quantità di ordinazioni è in diminuzione (nel 2008 erano stati ordinati 393 preti contro i 343 del 2018), ma anche qui la situazione è ben lungi dall’essere catastrofica per la chiesa italiana. Per almeno tre ragioni: primo perché il numero complessivo di sacerdoti rimane comunque altissimo se comparato a quello di altri paesi nel mondo (nel nostro paese vive e lavora quasi il 12 per cento del clero di tutto il mondo!); secondo perché, come già avviene in molti angoli del paese, l’arretramento può essere contrastato con l’importazione di clero dal sud del mondo e infine perché l’effetto congiunto del calo demografico e della secolarizzazione stanno riducendo in modo consistente l’attività complessiva del clero, adeguandola di fatto alla diminuita disponibilità di personale.

Cito il caso più eclatante: nel 2000 circa 35mila sacerdoti celebravano 214mila matrimoni, i 32mila presbiteri del 2018 ne hanno celebrati meno di 97mila. Difficile parlare di aumento del carico di lavoro.

Il problema principale per la chiesa cattolica rimane quello degli spazi, dei presidi territoriali, ovvero della gestione di un numero di parrocchie e di chiese ormai impossibile da tenere tutte aperte con il personale a disposizione.

Un paziente in salute

Insomma, le geremiadi sulla fine del cristianesimo che si levano da molti ambienti cattolici e atei devoti sono largamente esagerate e assomigliano a quelle di tanti professori sulla morte della cultura e l’imbarbarimento della gioventù. La secolarizzazione è in atto, ma segue strade e sentieri tortuosi e imprevisti. La chiesa, anche grazie alla popolarità enorme di cui gode il suo capo supremo, gode di una discreta salute: quella di un paziente la cui morte è molto al di là da venire.

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