I dati sul mercato del lavoro a ottobre 2021 hanno fatto molto discutere: la crescita occupazionale (+35mila unità), infatti, non ha riguardato in alcun modo le donne. A crescere, insomma, è stata solo l’occupazione maschile. In molti, tra cui l’onorevole Laura Boldrini, hanno commentato questo divario gridando allo scandalo, con un dato che sottolineerebbe ancora una volta le enormi disuguaglianze sul mercato del lavoro tra uomini e donne. Per quanto una crescita dell’occupazione pari a zero non sia una bella notizia, però, si rischia di denunciare un divario che, per una volta, è quasi inesistente.

Come hanno sottolineato recentemente Francesco Seghezzi (presidente della fondazione Adapt) e Andrea Garnero (economista all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, Ocse) l’occupazione femminile, pur avendo subito di più la crisi nelle prime fasi della pandemia, si è ripresa a un ritmo più rapido di quella maschile, arrivando quasi ad azzerare il gap.

A settembre, per esempio, le donne rappresentavano il 66 per cento della crescita occupazionale (+70mila unità, contro le +37mila degli uomini). Sempre in termini di occupazione, sia gli uomini che le donne hanno quasi raggiunto i livelli pre crisi: il numero di occupate è solo dell’1,13 per cento inferiore rispetto a febbraio 2020, contro il -0,6 per cento degli uomini.

Questo significa che il divario di genere, perlomeno in termini occupazionali, è stato superato? Decisamente no.

Gnder gap persistente

Innanzitutto, va considerato il fatto che il ritorno ai livelli pre crisi dell’occupazione può al massimo permetterci di tornare ai livelli di disuguaglianze di genere del pre pandemia. Da questo punto di vista, l’Italia si è posizionata più volte in fondo alle classifiche europee per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Nel 2000, il Consiglio europeo, con la cosiddetta «strategia di Lisbona», si è dato l’obiettivo di raggiungere un tasso di occupazione generale pari al 70 per cento e un tasso di occupazione femminile pari almeno al 60 per cento entro il 2010. Nel 2021 il tasso di occupazione femminile italiano è pari al 52,2 per cento, quasi 8 punti percentuali al di sotto dell’obiettivo che si sarebbe dovuto raggiungere undici anni fa.

E non si tratta solo della pandemia di Covid-19: all’apice della sua crescita, nel primo trimestre del 2020, il tasso era pari al 53,9 per cento.

A oggi, gli unici paesi Ue a non aver raggiunto l’obiettivo di Lisbona per l’occupazione femminile sono l’Italia, la Grecia e la Romania, cui si aggiungono altri paesi monitorati da Eurostat come Serbia (59,2 per cento), Macedonia del Nord (48,1), Montenegro (44,8) e Turchia (31,6). Non un gran gruppo di cui far parte, insomma.

Un primo problema, quindi, è di carattere quantitativo, con molte meno donne in Italia che lavorano rispetto alle omologhe europee. C’è poi un discorso di qualità dell’occupazione. Il divario di genere nelle retribuzioni in Italia non è particolarmente elevato: una donna, a parità di posizione, guadagna il 4,7 per cento in meno di un uomo in termini di retribuzione oraria, contro un gap in media del 14,1 per cento in Unione europea.

Fattori strutturali del mercato del lavoro, però, rendono molto più ampio il divario di genere. In primo luogo, c’è una grande differenza tra settore pubblico e settore privato: il gender gap è solo del 3,8 per cento nel settore pubblico, mentre nel settore privato le donne guadagnano in media il 17 per cento in meno degli uomini.

La situazione peggiora se si guarda alla retribuzione annuale anziché a quella oraria: nelle occupazioni full time, la retribuzione annuale per le donne laureate è del 29 per cento inferiore rispetto a quella degli uomini con pari qualifica, del 23 per cento per le non laureate.

Infine, le donne hanno una probabilità molto superiore rispetto agli uomini di accettare condizioni di lavoro inferiori rispetto alle proprie aspirazioni, soprattutto in termini di ore lavorate. Nel quarto trimestre 2020, il 5 per cento delle occupate dichiarava di voler lavorare più ore rispetto a quelle previste dal proprio contratto, contro il 2,5 per cento degli uomini.

Un dato che si ritrova anche nel numero di part time involontari, ossia quei contratti che sono a tempo parziale non per scelta del lavoratore o della lavoratrice, ma perché per lo stesso lavoro non è disponibile una posizione a tempo pieno.

I tassi di part time tra uomini e donne non sono molto diversi, ma il 65 per cento delle occupate a tempo parziale vorrebbe lavorare a tempo pieno, contro l’11 per cento degli uomini. Per gli uomini, dunque, il part time è quasi sempre volontario, mentre per le donne si tratta due volte su tre di una forzatura o comunque di una scelta obbligata dalla necessità, per esempio di prendersi cura della casa e della famiglia.

Se la mancata crescita dell’occupazione femminile a ottobre non deve farci preoccupare, anche solo questi pochi dati fanno capire quanto diverse siano le opportunità e le prospettive sul mercato del lavoro tra uomini e donne in Italia.

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