La vittima principale del Covid è il ceto medio. Segnata da anni di crisi economica (all’inizio del nuovo secolo si collocava nel ceto medio almeno il 70 per cento delle persone), la middle class nostrana, sotto i colpi della crisi economica si è sgretolata nel corso degli ultimi venti anni, scendendo al di sotto della metà degli italiani. Il processo di “de-cetomedizzazione” ha subito un ulteriore impulso a causa del Covid: prima dell’esplosione della pandemia la quantità di persone che si auto collocava nel ceto medio era intorno al 40 per cento. Oggi è scesa al di sotto del 30 per cento.

Il quadro di infragilimento della nostra società è marcato non solo dalle crescenti difficoltà economiche, ma anche da un consistente processo di polarizzazione sociale. Ne sono un esempio diversi indicatori: il 37 per cento degli italiani non è in grado di fare fronte a una spesa imprevista (una quota che nei ceti popolari sale al 63 per cento); il 16 per cento ha difficoltà a pagare le bollette (una quota che al sud sale al 20 per cento e nei ceti popolari vola al 40 per cento); l’8 per cento ha difficoltà a fare acquisti alimentari (un dato che nei ceti popolari lievita al 20 per cento).

Sempre più polarizzati

L’Italia 2021 è un paese che si percepisce spaccato in due, con il 51 per cento degli italiani che si sente incluso e il 46 per cento che si percepisce escluso. Il dato si polarizza nelle classi sociali: gli inclusi salgono al 65 per cento nel restante ceto medio, mentre gli esclusi volano al 66 per cento nei ceti popolari. Il quadro divaricante coinvolge anche l’ambito del capitale sociale. La maggioranza degli italiani (56 per cento) sostiene che la propria rete sociale e amicale è in contrazione (al 65 per cento tra i ceti popolari), mentre la quota che avverte la rete in crescita si ferma al 38 per cento (44 nel ceto medio).

All’inizio del 2021 la piramide sociale del paese colloca al vertice (4 per cento) quanti si sentono parte del ceto alto o medio alto; il 27 per cento si riconosce come ceto medio; il 52 per cento si colloca nel ceto medio basso (una persona che ha il necessario senza lussi); mentre il 14 per cento si avverte parte del ceto laborioso (una persona che vive con difficoltà del proprio lavoro). Infine, il 3 per cento si sente ormai parte del ceto marginale.

Guardando al 2021 le persone che prevedono la propria condizione sociale stabile, sicura o in crescita ammontano al 30 per cento. Il 43 per cento della popolazione guarda al nuovo anno con forte apprensione e avverte la propria situazione sociale come insicura, in calo o deludente. Infine, il 27 per cento quando pensa al 2021 vede davanti a sé un futuro incerto e ondivago.

In questo affresco non si sono sopite né le pulsioni anti immigrati (il 54 per cento è d’accordo con la politica di chiusura completa degli ingressi), né le pulsioni securitarie (il 71 per cento è a favore del diritto assoluto di legittima difesa), né le spinte da giustizieri (la voglia di difendersi da soli è al 41 per cento).

Ci troviamo di fronte a un paese sempre più diviso tra una minoranza privilegiata e agiata che continua a macinare benessere e una maggioranza di persone condannata a restare nella condizione attuale o peggio a ipotizzare ulteriori ricadute. L’Italia è un paese in cui l’ascensore sociale è attivo e con la freccia all’insù solo per quanti sono collocati nelle fasce alte della popolazione, mentre per gli altri sono aperte solo le vie della stasi sociale o della discesa.

Mutamento di paradigma

Il processo di trasfigurazione delle classi sociali rischia di generare un duplice mutamento di paradigma. Su un primo fronte rischia di riproporre l’appartenenza di classe come il ritorno di un filtro selettivo, di uno steccato (più o meno invisibile) che delimita il campo di che cosa una persona si può o non si può attendere dalla vita: il famigerato «campo del possibile» sottolineato dal sociologo francese Pierre Bourdieu. Una divisione che influisce sia sulle abitudini di consumo, sia su quelle politiche, facendo oscillare il pendolo delle classi subalterne tra la brama dei simboli delle classi agiate e la percezione dei segmenti privilegiati come sempre più distanti, lontani e nemici.

Sul secondo fronte, la trasfigurazione delle classi sociali in atto, potrebbe divenire un processo sempre più doloroso, rabbioso e conflittuale. Un fenomeno che potrebbe incentivare senso di rivalsa, ricerca del riscatto sociale (come fattore strutturante le scelte politiche e le visioni di futuro), ma anche pulsioni politiche e movimentiste rancorose. Raffaele Ventura, con il concetto di «classe disagiata» descrive un blocco sociale «aspirazionale» che, continuando a desiderare spazi, modi di vita, simboli e forme di esistenza che non può più, matura un proprio modo di essere e un proprio tratto caratterizzante. Lo scontro tra classe aspirata e classe vissuta, potrebbe generare quello che Vincent de Gaulejac definisce la «névrose de classe», la crisi di identità sociale che colpisce quanti hanno fatto o stanno facendo l’esperienza di scendere da una classe all’altra. Un processo che apre la possibilità a nuove forme di conflitto per il riconoscimento, per il possesso, anche in forma predatoria, dei simboli e dei beni del successo e del lusso (perduti o aspirati).

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