Dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, la politica italiana è stata caratterizzata da un divario apparentemente incolmabile tra responsività e responsabilità. Da un lato, le forze politiche abili nel catturare le preferenze degli elettori con slogan e promesse. Dall’altro, la responsabilità governativa, il dovere di assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche e risolvere i problemi della collettività.

Nel caso italiano, queste due forze motrici dell’azione pubblica hanno spinto i diversi partiti in direzioni opposte, spezzando il centrodestra, fomentando le tentazioni giallo-rosse da un lato e le spinte centriste di Azione e Italia viva dall’altro.

La divergenza tra responsività elettorale e responsabilità governativa, però, è stata anche figlia del decennio appena concluso, e quindi non per forza destinata a rimanere. Al contrario, le sfide davanti con cui l’Italia deve fare i conti oggi suggeriscono che i temi elettorali e quelli governativi comincino a coincidere.

La bassa natalità

Tanto è già stato scritto su come il governo Draghi, a differenza di Monti nel 2011, sia chiamato a distribuire risorse agli italiani piuttosto che toglierle. Oltre a ciò, per garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche, si sta profilando un tema che può mettere d’accordo i tecnici dei conti e coloro che dichiarano di rappresentare il popolo italiano (o parte di esso).

Questo tema è il numero dei contribuenti, cioè il numero di coloro che partecipano al mercato del lavoro e quindi contribuiscono al finanziamento dello stato sociale. È facilmente intuibile che più alto sia questo numero, più sostenibile diventi lo stato sociale. In Italia c’è un fattore che sta minacciando questo numero, un problema che viene evidenziato da tutte le forze politiche, anche quelle più populiste: la bassa natalità. Rispetto al tasso di fertilità all’interno dell’Unione europea, che comunque non è alto, in Italia il valore è decisamente minore, e dalla seconda metà del decennio scorso si sta pericolosamente avvicinando a 1, indicando quindi che per ogni donna in Italia nasce solo un neonato (mentre la soglia per garantire un cambio generazionale completo sarebbe all’incirca 2,2).

Il fatto che gli italiani facciano sempre meno figli non è soltanto un fattore che ferisce l’orgoglio dei sovranisti o uno dei principali temi dell’agenda politica dei nuovi partiti centristi. È anche uno sviluppo che mina la sostenibilità delle finanze pubbliche. Pertanto, deve anche essere una preoccupazione per i tecnici dei conti. Negli anni post-Covid, la politica economica responsabile non sarà più quella delle spending review e dell’austerità. Al contrario, sarà quella degli investimenti produttivi. Per l’Italia la sfida sarà soprattutto nel sociale.

Un modello diverso

Come anticipato, ormai da diversi decenni la bassa natalità è un problema che accomuna i paesi europei. In questo ambito, tra gli anni Novanta e oggi, i paesi modello sono stati i paesi scandinavi e altre realtà del nord Europa come i Paesi Bassi o, più recentemente, la Germania. In questi paesi, il tasso di fertilità è ben al di sopra della media europea, arrivando in alcuni anni addirittura a sfiorare il valore di due figli per donna, specialmente in Danimarca e Svezia (Eurostat). L’esperienza dei paesi scandinavi e di altre realtà del nord Europa dimostra come la natalità sia più alta quando lo stato assicura alle giovani madri e ai giovani padri generosi congedi di maternità e paternità, insieme a garanzie adeguate per assicurare loro continuità nella loro carriera lavorativa. Ciò deve essere integrato con un sistema capillare di asili nido, che sostenga le giovani famiglie nella loro complicatissima sfida di integrare famiglia e lavoro. In un mercato del lavoro che richiede inevitabilmente sempre più flessibilità, lo stato sociale è chiamato a supportare i giovani e le famiglie durante il corso della vita. Senza un sostegno statale in questa sfida, le giovani famiglie diventano sempre più riluttanti ad avere figli.

Per migliorare il tasso di fertilità, quindi, è necessario favorire e sostenere l’accessibilità al mercato del lavoro per le donne. Oltre a soddisfare un diritto fondamentale della popolazione femminile, ciò aumenterebbe anche il numero dei contribuenti nel breve termine, contribuendo quindi alla sostenibilità del welfare. Anche in questo àmbito, però, l’Italia registra tra le percentuali più basse d’Europa.

Il doppio salario

Emblematico è l’esempio della Germania che negli anni Novanta aveva un posizione di partenza sotto molti aspetti simile all’Italia, ma che con politiche generose di congedi parentali è riuscita a far crescere dalla metà degli anni Duemila in poi il tasso di occupazione femminile oltre il 70 per cento, mentre in Italia fino al 2020 è rimasto intorno al 50 per cento. Tra gli anni 2000 e 2010 la Germania ha seguito i modelli scandinavi che registrano alti tassi di occupazione femminile, migliorando di conseguenza anche il tasso di fertilità nazionale da 1,38 nel 2008 a 1,54 nel 2019.

Il nesso causale tra occupazione femminile e natalità risiede nel fatto che in un mercato del lavoro sempre più flessibile e soggetto a eventi imprevedibili, il doppio salario in famiglia garantisce più sicurezza economica.

Più specificatamente, un duplice canale di introito aumenta il reddito complessivo di un nucleo familiare e rende meno drammatica un’eventuale perdita di lavoro da parte di uno dei genitori. In caso di un unico canale d’introito, la drammaticità della perdita del lavoro è stata resa evidente durante la recessione degli anni 2009 e 2012, quando la perdita di lavoro del genitore maschile ha lasciato senza prospettive i relativi nuclei familiari.

L’esempio dei paesi nord-europei indica inoltre che, per favorire l’accesso al mercato del lavoro da parte delle donne, sono necessarie politiche attive da parte dello stato per facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia.

Le esperienze di paesi come Svezia, Germania, Paesi Bassi o Danimarca indicano però anche che non esiste una ricetta unica in questo senso. In Germania e Svezia, ad esempio, le politiche familiari pongono un grosso accento su generosi congedi genitoriali, in cui nel primo anno di vita di un neonato entrambi i genitori hanno la possibilitá di dedicare diversi mesi all’accudimento a salario quasi pienamente retribuito. Nei Paesi Bassi, invece, la conciliazione lavoro-accudimento prende forma largamente attraverso sussidi statali per coprire le spese di asili nido.

In Italia

In Italia, per fortuna, negli ultimi anni sono state intraprese diverse azioni importanti nell’àmbito delle politiche familiari. Mentre fino a qualche anno fa esisteva solo il congedo di maternità, dal 2018 anche il genitore maschile ha l’obbligo di prendere quattro giorni di congedo da dedicare al neonato. Il recente Family Act prevede un’estensione del principio per il quale l’onere dell’accudimento non ricada solamente sulle mamme ma venga diviso tra entrambi i genitori, attraverso ad esempio l’introduzione di congedi parentali obbligatori non cedibili all’altro genitore. Nei piani del Recovey fund, inoltre, si prevede un’estensione della rete degli asili nido e di facilitare l’accesso ad essi. Anche in termini di registrazione di bambini di età inferiore a tre anni ad asili nido, infatti, l’Italia ha finora avuto percentuali basse: 26 per cento nel 2018, contro ad esempio il 58 per cento nei Paesi Bassi.

In sintesi, aumentare il tasso di occupazione femminile genererebbe un circolo virtuoso per il quale aumenta la sicurezza economica dei nuclei familiari, rendendo conseguentemente meno insicura la delicata fase di accudimento di un neonato. L’aumento di occupazione femminile, inoltre, genera un aumento di contribuenti nel breve termine.

L’aumento di fertilità, infine, garantisce che il numero di contribuenti rimanga stabile a lungo termine. Investire nella conciliazione lavoro-famiglia, quindi, non è solamente un modo per rispondere a determinate domande sociali nel paese ma è, soprattutto, un tema di interesse economico nazionale.

 

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