Perché in Italia stiamo introducendo la terza dose del vaccino contro il Covid-19? Perché i vaccini non funzionano?

Per le pressioni di Big pharma, che vuole vendere più dosi possibili e fare montagne di soldi, come hanno lasciato intendere di recente una trasmissione televisiva e qualche articolo di giornale mal informato? No, niente di tutto questo. La scienza avanza a piccoli passi, e così ora noi sappiamo che la terza dose è necessaria, prima no.

Cosa è accaduto?

Non c’è nessun mistero. Che la terza dose serva lo sappiamo grazie a Israele. Il 6 gennaio 2021 lo stato di Israele e la Pfizer hanno firmato un accordo pubblico, in base al quale: «Le due parti stabiliscono di cooperare e di scambiare informazioni e dati riguardanti l’uso e la somministrazione del prodotto anche allo scopo di tracciarne i rischi e i benefici».

In pratica, la Pfizer forniva il suo vaccino a Israele a prezzo calmierato, e in cambio Israele si impegnava a monitorare l’efficacia del vaccino su tutta la sua popolazione. D’altronde, Israele è una nazione laboratorio perfetta: ha un numero limitato di abitanti, solo 8 milioni, e un sistema sanitario efficientissimo. E cosa hanno scoperto gli scienziati israeliani?

Grazie a quell’accordo, lo stato di Israele ha potuto dare il via a una grandiosa campagna di vaccinazione di massa, e i medici del suo sistema pubblico hanno potuto testare e tracciare un numero enorme di cittadini.

I risultati di questo gigantesco studio di popolazione sono stati illustrati in diversi articoli scientifici pubblicati nei mesi scorsi sulle più prestigiose riviste scientifiche.

Il primo e più importante articolo, comparso online ad agosto e poi pubblicato a ottobre sul New England Journal of Medicine, si intitola: Declino dell’immunità dopo la vaccinazione Pfizer.

Gli scienziati israeliani hanno seguito tutti i vaccinati del paese (oltre 5 milioni di individui) e si sono resi conto che, da quando si era diffusa la nuova variante Delta del coronavirus, molti vaccinati si ammalavano lo stesso e finivano in ospedale. Per esempio, alla data del 15 agosto, in Israele più del 60 per cento dei pazienti ricoverati in ospedale per Covid-19 erano vaccinati.

Su 515 malati gravi di Covid ricoverati, 301 erano vaccinati completamente, cioè avevano ricevuto due dosi del vaccino, e solo 214 erano non vaccinati. Ma se si calcolava l’incidenza percentuale dei casi di malattia grave nell’intera popolazione, la situazione si ribaltava: tra i non vaccinati – che erano solo 1,3 milioni – si contavano 16,4 casi di Covid grave ogni 100.000 abitanti, mentre tra i vaccinati – oltre 5 milioni e mezzo di israeliani, pari a oltre l’80 per cento dei cittadini di età superiore ai 18 anni – ce n’erano solo 5,3 ogni 100.000 abitanti.

Quindi, il vaccino funzionava ancora, ma probabilmente meno di prima. Gli scienziati a questo punto volevano capire di quanto fosse diminuita l’efficacia del vaccino.

La variante Delta

Sholten Singer | The Herald-Dispatch

L’efficacia del vaccino rappresenta la riduzione del rischio di sviluppare una malattia grave nel gruppo dei vaccinati rispetto al gruppo dei non vaccinati, e si calcola così: 1-V/N, dove V è la percentuale di individui infettati dal virus ogni 100mila vaccinati, e N è la percentuale di individui infettati dal virus ogni 100mila non vaccinati.

Gli scienziati hanno inserito i dati e hanno ottenuto che l’efficacia del vaccino Pfizer contro la malattia grave nella popolazione era pari al 67,5 per cento: buona, ma notevolmente inferiore a quella del 95 per cento misurata a inizio pandemia. In altre parole, a inizio pandemia il vaccino preveniva 9 casi di Covid grave su 10, mentre ora ne riusciva a prevenire solo 6 su 10. Come era potuto accadere?

Gli scienziati hanno indagato e hanno capito che questa diminuzione dell’efficacia del vaccino era in parte dovuta alla diffusione della nuova variante Delta del virus, che è molto più aggressiva e contagiosa di quella originaria Alfa. Ma si sono anche chiesti: e se ci fosse qualcosa di più? Forse, anche l’intensità della nostra risposta immunitaria indotta dal vaccino diminuisce col tempo. E se ciò avviene, di quanto diminuisce, e dopo quanto tempo? E in tutti gli individui oppure solo in una determinata classe di età?

Ormai sapete tutti che il Covid è tanto più grave quanto più l’età aumenta, e che specie gli anziani sopra gli 80 anni rischiano la morte. Inoltre che nei vari paesi sono stati vaccinati per primi e più estesamente proprio gli individui a rischio, tra cui gli anziani.

Gli scienziati israeliani hanno suddiviso la popolazione in classi di età e calcolato l’efficacia del vaccino contro la malattia grave per ciascuna di esse (vedi la tabella in questa pagina, ndr). L’efficacia del vaccino restava molto elevata in quasi tutti i gruppi di età, variando tra il 93 e 100 per cento, ma cominciava a diminuire in maniera marcata negli individui di età superiore ai sessant’anni, raggiungendo un minimo in quelli di età compresa tra gli 80 gli 89 anni, dove aveva un valore pari solo all’81,1 per cento.

Quindi gli scienziati israeliani hanno concluso che era necessario somministrare una terza dose “booster” di vaccino soprattutto agli individui di età superiore agli ottant’anni, e poi a tutti quelli di età superiore ai sessant’anni, per riattivare in loro la risposta immunitaria.

Dopo sei mesi

vaccini terza dose

Ma quando era necessario somministrare questa terza dose? In uno studio successivo, altri scienziati israeliani hanno scoperto che il declino della risposta immunitaria si fa più marcato quando sono trascorsi sei mesi dalla somministrazione della seconda dose, soprattutto in chi ha più di 65 anni.

Per esempio, chi è stato vaccinato a gennaio scorso ha una probabilità 2,3 volte superiore di ammalarsi di Covid rispetto a chi è stato vaccinato ad aprile. Quindi, è consigliabile somministrare la terza dose a chi ha terminato il ciclo di vaccinazione sei mesi prima.

Come vedete, per capire se l’efficacia di un vaccino diminuisce nel tempo bisogna studiare l’andamento del contagio nella popolazione. Misurare il livello di anticorpi presenti nel sangue di un singolo individuo non serve assolutamente a nulla, dato che il livello di anticorpi non è affatto un indice affidabile dell’efficienza della sua risposta immunitaria.

Difatti, quando un virus o un batterio penetra nel nostro organismo, si generano tanti linfociti B e T specifici contro di esso. Ogni linfocita B attivato inizia a moltiplicarsi generando un “clone”, ognuno dei quali produce uno e un solo tipo di anticorpi contro uno degli antigeni di quel virus e non di altri; mentre i linfociti T attivati diventano capaci di uccidere quel virus e non altri.

Così, si scatena una guerra: da una parte ci sono i milioni di linfociti B che producono enormi quantità di anticorpi anti virus che invadono il sangue, e i milioni di linfociti T; dall’altra c’è il virus.

A poco a poco (si spera) i nostri linfociti B e T prevalgono, e tutte le copie del virus vengono uccise: a quel punto i linfociti B e T specifici smettono di replicarsi, la loro quantità diminuisce a poco a poco e con essa anche la quantità di anticorpi prodotti.

Passato qualche mese, se il virus è scomparso dal nostro organismo, rimangono solo pochi esemplari di linfociti B e T dormienti – chiamate cellule di memoria – annidati dentro i nostri linfonodi e la nostra milza, che non producono più anticorpi ma che sono in grado di riattivarsi, di moltiplicarsi e di ricominciare a produrre anticorpi qualora quel virus penetrasse nuovamente dentro di noi.

Perciò, un individuo potrebbe avere livelli bassissimi di anticorpi contro un virus e ciononostante disporre di una ottima risposta immunitaria contro quello stesso virus, perché ha tante cellule di memoria dormienti nel suo corpo, pronte a risvegliarsi.

La terza dose del vaccino serve esattamente a questo: a fare aumentare il numero di cellule B e T di memoria presenti, che saranno in grado di montare una risposta immunitaria più efficace se nel futuro il coronavirus penetrerà nuovamente nel nostro corpo.

 

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