Quando, come è avvenuto negli scorsi decenni, gli indicatori della disuguaglianza economica registrano un aumento vuol dire, banalmente, che nel periodo considerato è aumentata la distanza tra i redditi delle persone. Quegli indicatori non sono, però, in grado di rispondere a un’importante domanda: anno dopo anno, i ricchi e i poveri sono sempre gli stessi o nelle posizioni in alto e in basso nella scala dei redditi ci sono individui diversi? La questione è importante per diversi motivi: perché aiuta a comprendere le cause e anche le conseguenze della disuguaglianza, e perché fornisce informazioni sul grado di mobilità economica e sociale che rende quest’ultima diversamente accettabile.

Se gli indicatori di disuguaglianza segnalano un peggioramento ma, al contempo, le posizioni individuali nella scala dei redditi vengono “rimescolate”, c’è ragione per considerare meno grave quel peggioramento.

In breve, la mobilità nelle posizioni individuali contribuisce ad alleviare l’impatto negativo che la disuguaglianza esercita sulla giustizia sociale, e su tutto ciò che ne consegue.

Il caso italiano

Sappiamo poco, con specifico riferimento al nostro paese, di come si “rimescolino” le posizioni di coloro che appartengono alla stessa generazione, e la ragione è soprattutto la scarsa disponibilità di dati “longitudinali”, cioè di dati che consentono di  seguire per molti anni i redditi di un campione rappresentativo di individui.

I dati amministrativi dell’Inps, sui quali stanno lavorando Francesca Subioli e Michele Raitano, consentono, però, di acquisire importanti informazioni in questa prospettiva, relativamente ai redditi da lavoro.

Esaminando le carriere lavorative dei singoli individui si può stabilire se esse hanno seguito dinamiche simili ovvero diverse e, quindi, valutarne gli effetti, nel corso del tempo, sulla disuguaglianza e sulla mobilità dei redditi individuali.

È anche importante sottolineare che quest’ultima può scaturire dalla maggior crescita, lungo la carriera, dei redditi di chi si posizionava inizialmente nella parte bassa della distribuzione rispetto a chi partiva da posizioni più elevate (e si tratterebbe di una mobilità buona), ovvero da oscillazioni che proiettano alcuni individui in alto nella scala dei redditi in un anno e in basso nell’anno successivo (questa più che mobilità si potrebbe chiamare volatilità, e come tale foriera di insicurezza).

Molti studi hanno documentato la crescita, negli scorsi decenni, della disuguaglianza nei redditi da lavoro: con riferimento all’universo dei lavoratori dipendenti privati, l’indice di Gini delle retribuzioni annue lorde, in base ai dati Inps, tra il 1982 e il 2017 è cresciuto del 24 per cento, passando da 0,34 a 0,42.

La ricerca si concentra su un campione di circa 25mila lavoratori, uomini e donne, nati tra il 1940 e il 1973. Per confrontare le  dinamiche reddituali in generazioni successive, tutti sono osservati nella stessa fase della loro carriera, tra i 35 e i 45 anni. Si tratta di una finestra temporale adatta ad approssimare il benessere complessivo lungo tutta la carriera, e sufficientemente lunga da consentire una stima accurata delle dinamiche del reddito individuale.

Disuguaglianza sempre

Il risultato principale è che più dell’80 per cento della disuguaglianza complessiva deriva da disuguaglianza permanente; negli 11 anni che vanno da quando i lavoratori hanno 35 anni a quando ne hanno 45, le differenze di reddito anno dopo anno sono largamente spiegate dalle differenze nei redditi medi guadagnati nel corso dell’intero periodo e perciò si può parlare di disuguaglianza permanente.

Peraltro, con il passare delle generazioni quest’ultima è cresciuta di importanza: tra i nati dopo il 1965 ha raggiunto il 90 per cento della disuguaglianza totale.

Nel corso del tempo si è anche ridotta la probabilità che nel corso di quegli 11 anni il reddito cresca: di coorte in coorte i casi in cui ciò si è verificato sono scesi dall’85 per cento circa a meno del 65 per cento (60 per cento per le donne). Ciò è conseguenza del diffondersi di carriere insicure e discontinue, che non garantiscono di certo una costante progressione dei salari; al contrario, esse possono spingere in molti casi il reddito guadagnato a 45 anni al di sotto di quello percepito 11 anni prima.

Queste evidenze permettono anche di fornire una spiegazione delle crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro più articolata di quella, ricorrente, che le riconduce quasi esclusivamente ai bassi e molto volatili salari dei più giovani che, anche in seguito delle riforme del mercato del lavoro, incontrano difficoltà crescenti al momento della loro entrata nel mercato del lavoro.

Questo fenomeno esiste ed è rilevante, ma l’esame delle dinamiche delle carriere lavorative tra i 35 e I 45 anni di età segnala che all’aggravarsi delle disuguaglianze contribuisce l’ampliarsi della sperequazione, persistente e non occasionale, nei redditi percepiti da coloro che sono nella fase centrale della loro carriera lavorativa.

Molta eterogeneità

Va anche sottolineato che le dinamiche delle carriere nascondono importanti eterogeneità: per le donne si registra un livello maggiore di volatilità reddituale, soprattutto se si tiene conto dei periodi di non occupazione.

Inoltre, come atteso, i più istruiti hanno maggiore probabilità di sperimentare redditi crescenti, con progressione più rapida e più volatile degli altri. Tuttavia, nel passaggio alle coorti più recenti, il vantaggio dell’istruzione in termini di maggiore mobilità sembra essere scomparso quasi del tutto, mentre è aumentato il livello di volatilità dei redditi dei lavoratori a bassa istruzione anche a causa della maggiore frequenza di periodi trascorsi fuori dal mercato del lavoro.

Infine, differenze fra le macroaree geografiche emergono solo quando nell’analisi si includono anche gli eventuali anni di disoccupazione: i buchi lavorativi di almeno 12 mesi, infatti, aggravano la disuguaglianza permanente tra i lavoratori del sud e quelli del centro nord e, inoltre, sono responsabili della maggiore volatilità dei redditi del sud rilevata nelle coorti a noi più vicine.

Il quadro complessivo che emerge è, dunque, quello di una società più rigida che mobile che tende a cristallizzare le posizioni individuali e che, per di più, riesce ad aggravare le disuguaglianze decretando l’ulteriore arretramento di chi – soprattutto donne, lavoratori meno istruiti e del sud – già occupava i gradini più bassi della scala economica.

Dunque più disuguaglianza “cattiva”, senza il lenitivo della mobilità. Se si vogliono combattere le disuguaglianze non si può non tenerne conto.

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