Nel trentennio postbellico si era realizzata nelle democrazie avanzate una convergenza verso un “capitalismo democratico” che coniugava crescita economica, forte riduzione delle disuguaglianze di reddito e rafforzamento della democrazia. Negli ultimi decenni si assiste invece a un “ritorno delle disuguaglianze”.

Centinaia di milioni di persone escono faticosamente dalla povertà nei paesi emergenti (si pensi solo alla Cina e all’India), mentre però peggiorano le condizioni di molti salariati e di settori del ceto medio nelle democrazie avanzate dove si allarga il divario tra i ricchi e i meno abbienti. È così che la democrazia rappresentativa si trova sotto attacco di forze populiste di varia natura, ma accomunate dalla protesta e dal rifiuto della rappresentanza tradizionale. Il simbolo forse più evocativo di tali rischi è l’attacco a Capitol Hill, la sede del congresso americano.

La questione politica

Secondo diversi studiosi, si farebbe dunque strada un capitalismo deregolato, con crescenti disuguaglianze e con un indebolimento della democrazia. Questi rischi vanno presi sul serio, ma il futuro non è segnato. Occorre guardare meglio dentro le democrazie avanzate, dove le tendenze in corso non sono unidirezionali.

Gli studi sulle disuguaglianze sono ormai numerosi. Essi attirano in genere l’attenzione sul ruolo della globalizzazione dell’economia e dell’innovazione tecnologica e organizzativa. La prima agisce attraverso la delocalizzazione produttiva e la concorrenza di costo dei paesi emergenti, che indeboliscono le capacità del lavoro di contrattare le proprie condizioni retributive.

D’altra parte, l’innovazione crea una domanda di lavoro qualificato che non è disponibile in misura adeguata. Questi studi tendono però a trascurare le differenze con le quali le disuguaglianze si manifestano nei paesi avanzati. Se si presta più attenzione a questo aspetto, emerge l’influenza di fattori che hanno anche a che fare con la politica, oltre che con l’economia (rimando per un’analisi più dettagliata a Capitalismi e democrazie, Il Mulino). In altre parole, l’assetto politico-istituzionale gioca un ruolo rilevante, influenzando le risposte nazionali alle sfide di ordine sovranazionale poste da globalizzazione e innovazione.

Investimenti sociali

Guardando alle democrazie avanzate, emergono percorsi diversi: la crescita inclusiva in cui una redistribuzione efficace riduce le disuguaglianze e non frena lo sviluppo, ma anzi lo sostiene, come nei paesi nordici e in parte in Germania; la crescita non inclusiva con bassa redistribuzione e elevate disuguaglianze, tipica dei paesi anglosassoni; la bassa crescita non inclusiva in cui livelli non trascurabili di spesa pubblica non incidono efficacemente sulla disuguaglianze, sono onerosi per le finanze pubbliche e in ultima istanza finiscono per ostacolare la crescita stessa, come mostra il caso dell’Italia e di altri paesi dell’Europa del sud.

Che cosa c’è dietro il modello della crescita inclusiva che testimonia una maggiore capacità di tenuta del capitalismo democratico? Anzitutto, le relazioni industriali continuano ad avere qui un ruolo ancora rilevante, nonostante i segni di indebolimento dovuto ai cambiamenti economici. Si manifesta, specie nel caso dei paesi scandinavi, la capacità di sostenere il reddito dei lavoratori, di limitare le disparità salariali, anche di genere, ma allo stesso tempo di contribuire alla crescita della produttività e alla flessibilità e riqualificazione continua del capitale umano, nel rispetto delle compatibilità macro-economiche.

D’altra parte, la redistribuzione non frena, a sua volta, la crescita perché si basa su un modello di welfare che riesce a ricalibrare l’equilibrio tra vecchie e nuove politiche sociali. Dunque un welfare non centrato solo sulle misure tradizionali come pensioni e tutela dalla disoccupazione, ma più orientato sui nuovi rischi, sulle discontinuità crescenti legate alle nuove situazioni occupazionali, e familiari (e quindi attenzione ai giovani, alle donne, ai servizi per l’infanzia e per gli anziani, e anche alla formazione e riqualificazione del capitale umano (un welfare come “investimento sociale”).

Un altro aspetto da considerare riguarda una sorta di “compensazione” per le imprese dei maggiori costi in termini di tassazione e di regolazione del mercato del lavoro. Questo obiettivo viene realizzato specie con l’offerta di “beni collettivi per la competitività” efficaci: promozione della ricerca, infrastrutturazione e servizi. Le imprese sono quindi incoraggiate a innovare e rendono più sostenibile la redistribuzione.

Una democrazia negoziale

Insomma, lo sviluppo inclusivo si basa su una redistribuzione estesa che riduce efficacemente le disuguaglianze ma non frena la crescita, e su politiche della formazione e dell’innovazione che la sostengono. Naturalmente, non mancano i problemi. Il contrasto delle disuguaglianze incontra vincoli e limiti.

L’esodo di quote significative di elettorato popolare dai partiti tradizionali verso l’astensionismo e verso le nuove formazioni di destra radicale è presente anche nei paesi della crescita inclusiva. Tuttavia, la tenuta del capitalismo democratico è certo maggiore. Quali caratteri del sistema politico favoriscono questo esito?

Da questo punto di vista emergono i tratti di quella che si può definire una “democrazia negoziale”, la quale si distingue per la capacità di dare maggior voce e rappresentanza agli interessi dei gruppi sociali più deboli e di rendere meno squilibrati i rapporti tra capitale e lavoro.

Ciò avviene con il concorso di due fattori principali: forme di concertazione delle politiche economiche e sociali estese e istituzionalizzate tra governo, sindacati e imprese; un circuito politico-elettorale basato sul sistema proporzionale che, a differenza di quello maggioritario, riduce la convergenza al centro e l’indistinzione programmatica per vincere le elezioni ricercando il consenso dei ceti medi.

Una fetta consistente dell’elettorato di ceto medio (non tutto) è infatti ostile a interventi redistributivi perché comportano maggiore tassazione. Nelle democrazie negoziali si creano invece, grazie anche al sistema proporzionale, condizioni meno sfavorevoli per coalizioni elettorali, guidate in genere da partiti di solida tradizione socialdemocratica, che puntano alla redistribuzione. Esse includono settori più aperti dei ceti medi (in particolare gli addetti al settore socio-culturale), e quote significative dei gruppi più svantaggiati.

Il capitalismo democratico

Queste esperienze, pur con le loro difficoltà, mostrano come la notizia della morte del capitalismo democratico è esagerata. Così come la liquidazione della socialdemocrazia che le ha sostenute è troppo frettolosa. Da queste esperienze, si può imparare, perché esse aiutano a mettere a fuoco i problemi che bisogna affrontare, anche se i trapianti istituzionali sono certo difficili.

D’altra parte, occorrerà anche valutare con attenzione i cambiamenti di lungo periodo influenzati dall’invasione della Ucraina. Essi vedranno con ogni probabilità una riduzione dei processi di delocalizzazione produttiva e un ridisegno delle catene internazionali del valore che potrebbero modificare le condizioni dei lavoratori nelle democrazie avanzate.

La maggiore segmentazione dei blocchi economico-politici (quello tra Russia e Cina e quello del mondo occidentale), rispetto alla fase di globalizzazione aperta degli anni passati, potrebbe poi portare a una riduzione del mercato e quindi a riproporre un assetto redistributivo rafforzato, per sostenere la domanda (un approccio neo-keynesiano di cui si sono avute avvisaglie con la pandemia). In ogni caso, le sorti del capitalismo democratico non sono necessariamente segnate. Esse dipenderanno dalla capacità della politica di rispondere alle sfide dell’economia.

Carlo Trigilia interverrà alla rassegna “Disuguaglianze e democrazia. Quale futuro per un capitalismo democratico?”, a cura del Mulino, alla Nuvola di Roma il 27 marzo.

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