La povertà in Italia per più di 5 milioni e mezzo di persone si sta cronicizzando, diventa in molti casi ereditaria, attraversa cioè più generazioni appartenenti allo stesso nucleo familiare, tocca una fetta sempre più ampia di coloro che pure un’occupazione ce l’hanno, investe in modo particolare chi ha un basso livello di istruzione.

La fotografia scattata nel rapporto Caritas 2022 dedicato alla povertà – intitolato “L’anello debole” – racconta la realtà di un paese che appare in molti casi senza difese o quasi di fronte alla crescita del disagio e dell’esclusione sociale, fenomeni aggravati da pandemia e crisi energetica.

Fra i pochi strumenti di contrasto per arginare la povertà c’è il reddito di cittadinanza che, secondo la chiesa italiana, è importante mantenere correggendone però alcuni limiti e difetti.

Senza dimenticare che per uscire dall’indigenza sono necessarie politiche inclusive sul lavoro, l’educazione, la casa, i salari.

Il rapporto disegna, di fatto, un’agenda sociale per il nuovo governo e per il nuovo parlamento, chiama tutte le componenti sociali a guardare senza filtri una realtà sociale a tratti aspra e drammatica.

«Nel 2021 – afferma la ricerca – la povertà assoluta conferma i suoi massimi storici toccati nel 2020, anno di inizio della pandemia da Covid-19. Le famiglie in povertà assoluta risultano 1 milione e 960mila, pari a 5.571.000 di persone (il 9,4 per cento della popolazione residente)».

«L’incidenza – prosegue lo studio – si conferma più alta nel Mezzogiorno (10 per cento, rispetto al 9,4 per cento del 2020) mentre scende in misura significativa al nord, in particolare nel nordovest (6,7 per cento da 7,9 per cento)».

Altro dato su cui riflettere è che la povertà cresce fra i più giovani, mentre la sua incidenza è aumentata più della media fra le famiglie composte da almeno quattro persone; l’ascensore sociale, insomma, è rotto e fermo da tempo.

Reddito utile ma da rivedere

In questo contesto, un’analisi dettagliata della ricerca riguarda il reddito di cittadinanza (Rdc). Il presidente della Cei, Matteo Zuppi, in un messaggio scritto in occasione della pubblicazione del rapporto Caritas avvenuta ieri a Roma, ha affermato: «Un’ultima cosa che mi ha colpito – e speriamo che il governo sappia affrontarla con molto equilibrio – è il problema del reddito di cittadinanza che è stato percepito da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti».

«Quindi – ha aggiunto – c’è un aggiustamento da fare ma mantenendo questo impegno che deve essere così importante in un momento in cui la povertà sarà ancora più dura, ancora più pesante e rischia di generare ancora più povertà in quelle fasce dove si oscilla nella sopravvivenza, che devono avere anche la possibilità di uscire da questa “zona retrocessione”».

Parole cui ha fatto eco il presidente di Caritas italiana, Carlo Redaelli, arcivescovo di Gorizia, il quale ha osservato: «Non spetta a Caritas, né alla chiesa dare precise indicazioni a chi ha il compito e la grave responsabilità di legiferare e di amministrare per il bene comune, cioè di tutti, anzitutto dei poveri. In ogni caso, anche rivedendo gli strumenti finora in essere e tenendo conto del quadro pesante dei prossimi mesi e delle risorse limitate, occorre trovare modalità per “tenere a galla” – se mi permettete una semplice immagine – chi rischia di affondare e poi anche per aiutarlo a imparare a nuotare e comunque a raggiungere una sponda sicura».

Quindi, citando papa Francesco, ha aggiunto: «Aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte alle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».

Il messaggio che arriva dalla Cei al governo è chiaro ed è duplice: non si tratta di cancellare il Rdc, anzi, caso mai va aggiornato per raggiungere quanti oggi ne sono esclusi (famiglie e stranieri in primo luogo), allo stesso tempo servono forti politiche sociali per rompere le catene della povertà e rimettere in moto meccanismi di inclusione sociale.

Lavoratori poveri

Il rapporto mette in luce un altro aspetto preoccupante, ovvero l’allargamento dell’area della povertà a chi un’occupazione ce l’ha, il che sta generando un fenomeno di crescente diffidenza verso il lavoro (il cosiddetto “lavoro povero” riguarda il 13 per cento della forza lavoro complessiva).

«Le persone in povertà intergenerazionale – si afferma nella ricerca – riportano di sentirsi sfruttate dai datori di lavoro, spesso si tratta di lavori in nero e malpagati e in alcuni casi, sebbene i lavoratori siano messi in regola, i contratti applicati non garantiscono entrate sufficienti per sostentare la famiglia, ancor di più se sono attività part time».

Si registra insomma «una presenza notevole di working poor. Inoltre, operatori e volontari hanno raccontato che talvolta il reddito di cittadinanza rischia di essere vissuto come un mero supporto assistenzialista e scoraggia l’attività lavorativa. D’altro canto i salari previsti dai contratti di lavoro non ammontano a somme tanto differenti».

Sta emergendo dunque con evidenza una drammatica questione salariale.

Il rapporto conferma inoltre «la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione». Fra i più indigenti «cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1 per cento al 69,7 per cento»;

tra questi ultimi si contano anche persone analfabete, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. «Nelle regioni insulari e del sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7 per cento e al 75 per cento».

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