La protezione sociale, ha scritto di recente Piero Ignazi su Domani, è ormai la questione che discrimina gli schieramenti politici. Si tratta di un’affermazione del tutto condivisibile che si ricollega all’antica idea che destra e sinistra si distinguono soprattutto per le posizioni su povertà e disuguaglianze.

Semplificando, si schierano contro la protezione sociale quanti pensano che sia povero chi non ha saputo competere in mercati che offrono opportunità e che sono in grado di garantire condizioni di vita almeno decenti a tutti. Sono invece a favore quanti pensano che molti, senza averne responsabilità, non sono messi in condizione di competere e che i mercati sono ben lungi dall’offrire opportunità di vita decente a tutti.

Per i primi, la protezione sociale darebbe premi ai non meritevoli, spingendoli ulteriormente verso l’ozio, qualcosa di molto simile al parassitismo sociale. Per i secondi, essa è un doveroso risarcimento che, se opportunamente disegnata, non incentiva l’ozio.

Questi temi ricorrono nel sempre più caldo dibattito sul reddito di cittadinanza (Rdc) dove si fronteggiano veementi richieste di abolirlo e più tiepidi propositi di raffinarlo. Molto spesso, e non è una novità, le posizioni, soprattutto quelle avverse al Rdc, poggiano su tesi generiche formulate evitando il fastidio di interrogare i dati su ciò che il mercato offre e quali tra le sue offerte il Rdc potrebbe indurre a rifiutare. Il tema generale dell’effetto di scoraggiamento del lavoro provocato dai sussidi è antico e controverso.

I dati sul lavoro stagionale

Qui offriamo qualche evidenza con riferimento ai lavori stagionali, visto che uno degli argomenti principali degli avversari del Rdc è che esso avrebbe indotto, soprattutto nel turismo e nella ristorazione, molti giovani a rifiutare questi lavori.

Partiamo dall’importo medio mensile del Rdc per nucleo familiare. Si tratta di circa 550 euro al mese – includendo l’integrazione per il canone di affitto – e gli importi più elevati tendono a concentrarsi nelle famiglie più numerose per effetto della scala di equivalenza (pur non priva di difetti) adottata. Questo dato va preso come puramente indicativo in quanto è una mera media e include anche coloro che non sono in condizioni di lavorare; dunque, anche chi non rientra tra i possibili oziosi addizionali creati dal Rdc.

Venendo ai lavori stagionali, guardiamo i dati, provenienti dagli archivi amministrativi dell’Inps, del 2018, un anno precedente al Covid e al Rdc. La prima evidenza è che i contratti stagionali sono molto brevi.

La metà dura meno di tre mesi; il 27 per cento addirittura meno di un mese. Inoltre, la retribuzione complessiva, anche per questa ridotta durata, è decisamente bassa: al lordo di imposte e contributi a carico del lavoratore, la metà dei contratti non supera i 3.500 euro. Il 30 per cento degli stagionali non raggiunge gli 860 euro lordi mensili e il 40 per cento sta sotto i 1.080 euro. Peggiore è, naturalmente, la situazione degli stagionali part-time che rappresentano il 36 per cento del totale: la metà di essi percepisce meno di 2100 euro lordi e il 60 per cento non supera i 950 euro lordi al mese. Inoltre, la durata del contratto per il 57 per cento di questi lavoratori è inferiore a tre mesi. È di interesse anche il complessivo reddito lordo nell’anno di chi ha avuto un contratto da stagionale: il 50 per cento guadagna meno di 7.300 euro e il 43 per cento non arriva a 6mila euro, mentre solo il 18 per cento supera nel corso dell’anno i 15mila euro. Gran parte dei contratti stagionali (circa i due terzi) sono concentrati nel turismo e nella ristorazione e i dati finora riportati valgono sostanzialmente anche in questi settori.

Di fronte a tutto ciò si può tentare una risposta alla domanda se il timore di perdere il Rdc o vederselo significativamente decurtato scoraggi il lavoro stagionale. La risposta è che potrebbe esserci questo effetto ma in casi marginali: in presenza dei lavori peggio pagati e di più breve durata nonché di un RdC relativamente alto a causa della numerosità dei componenti il nucleo familiare. Al riguardo va ricordato che per una famiglia con due adulti e due minori il Rdc massimo è di 900 euro al mese, eventualmente più 280 euro per il canone di affitto, mentre la soglia di povertà assoluta, come calcolata dall’Istat, varia tra 1.270 e 1.730 euro mensili, a seconda del tipo di comune e della zona di residenza.

Stagionali: falso problema

Questi dati servono sia a sottolineare che, soprattutto per i nuclei numerosi, non è affatto vero che l’importo del Rdc è “eccessivo” rispetto alla soglia di povertà, sia a chiarire che un’enorme quota di stagionali non raggiungerebbe la soglia di povertà anche nei pochi mesi in cui è occupata.

Inferire legami causali fra una misura di policy e le dinamiche del mercato del lavoro è estremamente complesso, ma altri dati forniti dall’Inps segnalano che, contrariamente a una diffusa aneddotica, il Rdc non si è accompagnato alla riduzione del numero di lavoratori stagionali. I più recenti dati disponibili mostrano infatti che a maggio 2021 sono stati attivati 142 mila contratti stagionali, mentre negli anni precedenti all’introduzione del Rdc il numero di contratti attivati a maggio non aveva mai superato le 90 mila unità.

Da questi dati emerge un’ulteriore questione su cui gli schieramenti politici potrebbero differenziarsi: è socialmente accettabile che grazie al welfare si venga messi in condizione di rifiutare lavori mal pagati e insicuri? Tra le possibili motivazioni di una risposta negativa c’è quella che lavori poco retribuiti potrebbero costituire per molti giovani la porta di accesso al mercato del lavoro. Qui si può ricordare che tra gli stagionali solo un quarto ha al più 25 anni mentre il 50 per cento ha più di 35 anni. Dunque, non è una questione che riguarda solo i giovani. Inoltre, non vi è garanzia che vi siano lavori, anche con queste caratteristiche, per tutti i giovani.

Dunque, se non si può escludere che vi siano effetti marginali o marginalissimi del Rdc sulla propensione all’ozio si può però escludere, sulla base di quel che si conosce, che la sua abolizione sarebbe una misura efficace ed equa, anche soltanto rispetto a coloro che sono in grado di lavorare. Quegli effetti marginali possono, peraltro, essere ulteriormente limitati con opportuni interventi (una questione sulla quale si potrà ritornare). Ma, concludendo, il vero problema e il più fondamentale discrimine tra posizioni politiche può forse essere individuato nella preoccupazione per la creazione di un’adeguata offerta di lavori dignitosi in grado di limitare la povertà e sconfiggere l’ozio.

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