Il ministero del Lavoro, appena occupato da Andrea Orlando, ha a disposizione una mappa piuttosto chiara di cosa è successo nel primo anno della pandemia. Il rapporto annuale sul mercato del lavoro pubblicato ieri conferma quello che già si era intuito mese dopo mese: nel 2020 sono stati “espulsi” dal mercato prima di tutto quelli che già venivano trattati peggio e cioè donne, giovani e stranieri.

Categorie penalizzate perché «più spesso occupano posizioni lavorative meno tutelate, per giunta nei settori e nei tipi di impresa che sono stati investiti più duramente dalla crisi», come spiega una nota diffusa ieri.

Un esercito di inattivi

A livello di numero di occupati siamo tornati poco sopra ai livelli del 2016, perdendo in media 470mila posti di lavoro nei primi nove mesi dell’anno. Tuttavia dalle prime stime anche il quarto trimestre ha visto il numero degli occupati diminuire.

Per avere un termine di confronto, dal 2017 al 2019, il numero delle attivazioni, cioè di nuovi contratti, ha sempre superato quello delle cessazioni, con un aumento medio a trimestre di 136mila occupati. Nel terzo trimestre di quest’anno, che pure è stato un periodo di timida ripresa, il saldo si è fermato a più 23mila posti, meno di un sesto della media degli ultimi due anni.

Le statistiche registrano soprattutto l’esplosione del numero degli inattivi in età da lavoro, cioè i residenti tra i 15 e i 64 anni che non lavorano e non cercano una occupazione e/o non sono disponibili a lavorare: sono aumentati di 621mila unità, una crescita dell’1,8 per cento.

I sommersi di questa pandemia sono ancora una volta donne e under 35: il calo del tasso di occupazione femminile è quasi il doppio di quello maschile.

Al 30 settembre 2020, per esempio, si contano 15mila contratti attivati in più per gli uomini rispetto all’anno precedente e 38 mila in meno, invece, per le donne.

Lo stesso vale nel confronto tra la diminuzione degli occupati nella fascia di età sotto i 35 anni e quella registrata tra i 35 e 49 anni. In particolare nel confronto trai primi nove mesi del 2019 e i primi nove mesi del 2020 metà delle posizioni di lavoro perse è under 35.

Anche gli stranieri hanno perso lavoro in proporzione più degli italiani. Il rapporto conferma che il calo è dovuto soprattutto al mancato rinnovo dei contratti a termine dei lavoratori dipendenti. Nei primi tre trimestri sono stati persi 394mila posti a tempo determinato pari a un calo del 12,9 per cento (quello a tempo indeterminato è invece aumentato dello 0,6 per cento) e sono scomparsi, invece, 162mila lavoratori autonomi.

Oltre a questi numeri, va considerato che ci sono ancora 165mila persone che risultano aver essere in cassa integrazione continuativa a zero ore. Secondo il rapporto, il 7 per cento delle aziende ha ridotto il personale tra marzo e maggio e l’8,5 tra giugno e novembre.

Lo smart working si è concentrato soprattutto nel settore delle comunicazioni e dei servizi e in seconda battuta delle professioni e ha coinvolto per ovvia ragione soprattutto la minoranza dei lavoratori laureati.

Secondo una indagine condotta dall’Istat, subito dopo lo scoppio della pandemia, tra le imprese con più di tre addetti, una su cinque ha adottato forme di lavoro da remoto. Ma da giugno a novembre la percentuale si era già ridotta all’11 per cento delle aziende, e al loro interno poi, a meno di un terzo dei lavoratori.

Le aziende che hanno reagito con forme innovative di organizzazione del lavoro sono anche quelle che erano meno colpite dalla pandemia, il calo degli occupati è infatti stato più forte nelle piccole imprese di alloggio e ristorazione, intrattenimento, con un alto turn over.

 

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