Quello che la politica sta sfoggiando sul Monte dei Paschi di Siena è un misto di propaganda e pensiero magico. Nell’attesa che domani il ministro dell’Economia, Daniele Franco, riferisca in parlamento sulla ipotesi di acquisizione da parte di Unicredit, il leader della Lega, Matteo Salvini, parla di non «svendere» la banca e di necessità di aggregazione con banche «pugliesi», «emiliane» e «liguri».

La formula riecheggia l’idea spregiudicata, già dettagliata su questo giornale, di un’aggregazione con la popolare di Bari, salvata dallo stato, e con Carige, cioè la banca che, dopo Mps, è l’istituto italiano in maggiore difficoltà: ieri, dopo la pubblicazione dei cosiddetti stress test dell’Autorità bancaria europea, la banca di Genova ha perso in Borsa il 10,7 per cento. Il Pd si trova incastrato in un conflitto di interessi più che decennale, aggravato dal clamoroso caso di Pier Carlo Padoan, ex ministro, ex parlamentare e ora presidente-astenuto di Unicredit.

Buon governo

Un coro nutrito e bipartisan chiede, anche comprensibilmente, di evitare i regali a Unicredit, trovando una alternativa. Il tutto senza che nessuno spieghi chi dovrebbe pagare per l’ennesimo tentativo di risanamento. Ieri il presidente della Toscana Eugenio Giani, che in campagna elettorale aveva promesso un Monte dei Paschi sano e pubblico, ha condensato la summa del pensiero magico in una manciata di dichiarazioni. Ha detto nell’ordine che «non bisogna correre per svendere la banca», che Mps è un simbolo di «buon governo finanziario», che i crediti deteriorati sono dovuti alla gestione di dieci anni fa e, in una corrispondenza di amorosi sensi con il leader leghista, che si dovrebbe pensare a una operazione con banche «paritarie». Nessuna di queste dichiarazioni ha a che fare con la realtà. I crediti deteriorati certo maturano nel tempo, ma non si possono fare sparire a costo zero, la corsa è una maratona di anni spesi alla ricerca affannosa di un compratore. Semmai si è perso troppo tempo e, a prescindere dalle scadenze Ue, nel settore bancario tempo e fiducia sono due fattori cruciali.

Dopo il peccato originale dell’acquisizione di Antonveneta e le truffe dei derivati Santorini e Alexandria, tra 2011 e 2015, prima dell’ingresso dello stato nel suo azionariato, Mps ha registrato 14,3 miliardi di euro di perdite, ha raccolto 8 miliardi di euro sul mercato e ripagato due miliardi di aiuti di stato. Nel 2016 l’istituto è risultato negli stress test dell’Eba la peggiore delle 51 banche sorvegliate dall’autorità europea. A sua volta il governo di Matteo Renzi assieme al referendum ha fallito lo spericolato tentativo di far entrare nel suo capitale il fondo del Qatar. Da qui il salvataggio pubblico: la banca nel 2017 ha ingoiato altri 8,1 miliardi di euro, tra ricapitalizzazione, conversione di bond, compensazioni agli obbligazionisti e lo stato si è impegnato a uscire dal capitale entro il 2021.

Punto e a capo

Quattro anni dopo siamo punto e a capo: nonostante la mega pulizia di bilancio dai crediti deteriorati tramite la società pubblica Amco, peggior risultato negli stress test, nuove sofferenze da smaltire e di nuovo dibattito su compratori e ricapitalizzazione. In un mercato in cui i margini di profitto si sono assottigliati per tutti, per tornare in salute serve molto più tempo e «una delle più importanti banche d’Europa, la quinta banca italiana», come l’ha definita Giani, ha bisogno di un’aggregazione solida per stare sul mercato. Il bilancio 2020 ha registrato il peggiore crollo del margine di interesse del settore, con un meno 16 per cento, e le attrattive per un’acquisizione di Mps sono dunque minime. Lo sanno bene al Tesoro, dove hanno infilato comunque nella legge di bilancio una dote fiscale di due miliardi di euro per il matrimonio Unicredit-Mps. L’amministratore delegato di Unicredit Andrea Orcel ha posto le sue condizioni: deciderà il perimetro di Mps da acquisire, con tutta probabilità anche considerando tutte le opzioni sul tavolo, compresa una ulteriore operazione con il Banco Bpm. Del resto, dalla sua c’è che la gestione delle crisi bancarie degli ultimi anni è l’esatta premessa di quello che sta avvenendo oggi, incluso il precedente dell’operazione banche venete, acquisite con dote miliardaria dal principale concorrente, Intesa San Paolo. Di fronte a una operazione che prevede sulla carta 6 mila esuberi, tutti i partiti chiedono correttamente la tutela del lavoro, ma le prospettive reali sono tali che Lando Sileoni, segretario della Fabi, ha dichiarato la situazione gestibile utilizzando tutti «gli strumenti a disposizione», cioè quel fondo esuberi capace negli anni di pagare prepensionamenti e uscite volontarie, senza ricorrere a licenziamenti.

Dunque qual è il punto del contendere? Soprattutto difendere la direzione centrale della banca che sta a Siena. E per questo, al di là del mantra contrario allo spezzatino, potrebbe tornare utile l’intervento del Mediocredito centrale. La banca di sviluppo, controllata da Invitalia e guidata da Bernardo Mattarella, prima della acquisizione della popolare di Bari faceva un altro mestiere, ma ora sembra candidata ad acquisire parte della rete di Mps nel Mezzogiorno e eventualmente potrebbe fornire a Siena anche quello che già ha offerto alla Puglia: mantenere un consiglio di amministrazione e tutto quello che ne consegue. Ma qualsiasi accordo si troverà, il destino del Monte dei Paschi si è già consumato.

 

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