Negli Stati Uniti segnati dalla lunare Trumpeconomics arriverà prima la recessione o la rivolta di piazza? Gli analisti concordano nel dire che nell’ultimo mese il rischio recessione è raddoppiato e questo, per l’Europa, e soprattutto per un’economia fragile (perché sovraindebitata) come l’Italia, non è una buona notizia. Il crollo del commercio internazionale e una crisi di Wall Street comportano un rischio contagio assicurato, anche per noi italiani.

Lo ha compreso anche il ministro dell’Economia italiano, Giancarlo Giorgetti che, durante il question time alla Camera ha detto: «Innegabilmente l’introduzione di dazi annunciati dall’America potrebbe danneggiare l’economia italiana e con effetto a catena il commercio globale», per poi aggiungere – in ottica cerchiobottista – che comunque anche la globalizzazione non ha funzionato.

Il ceto medio americano

Se si dovesse verificare un’esplosione dei prezzi della stragrande maggioranza dei beni al consumo americani – beni che sono per lo più frutto dell’importazione di semilavorati e quindi tassati fortemente – allora è certo che al malcontento di Wall Street seguirà la rabbia di main street, ovvero della piazza. Tuttavia l’inflazione, che resta alta al 2,9 per cento, ha rallentato il passo: a febbraio i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,2 per cento, ma le stime parlavano di un rialzo dello 0,3.

Può anche essere che a protestare saranno quella middle class americana detentrice di risparmi investiti in Borsa e una platea di percettori di pensione, il cui valore è strettamente legato all’andamento di Wall Street. Vedendosi svuotate le tasche, potrebbero indispettirsi. Ciò potrebbe portare il presidente degli Stati Uniti a più miti soluzioni.

Speriamo che ci ripensi, insomma, come ha fatto capire ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen mentre dava il via libera alla contromossa dei dazi. Lasciando sempre aperta la porta del dialogo con l’America. Tuttavia il presidente americano sembra non considerare questa opzione e nella serata di ieri ha detto di aver intenzione di reagire per vincere la guerra commerciale.

Controdazi europei

Di sicuro, l’unica attuale certezza è l’incertezza che accompagna questa stagione di dazi trumpiani annunciati, posticipati, annullati e infine imposti nella serata di martedì a tutto il mondo per alluminio e acciaio: più 25 per cento. A questa tassa sulle esportazioni, l’Europa ha risposto nella mattinata di ieri con un elenco di 99 pagine di contromisure per proteggere le aziende e i consumatori europei dall’impatto delle «ingiustificate restrizioni commerciali».

La misura, che sarà automaticamente attivata a partire dal primo aprile, interesserà beni per un valore di 26 miliardi di dollari e si sostanzia nella rimessa in vigore delle tariffe già in essere nella prima epoca Trump (2018 e 2020). Anche i canadesi hanno fatto altrettanto, con tariffe di ritorsione per un valore di 29,8 miliardi di dollari.

La Commissione europea, in realtà, non ha tassato beni strategici, bensì ha puntato a prodotti simbolici per un danno politico agli States, tipo il bourbon del Kentucky o le moto Harley Davidson: «La controffensiva europea sembra più rivolta a cercare di far capire a Trump che c’è un limite a tutto», spiega Marco Lossani, docente di economia internazionale all’università Cattolica di Milano, che continua: «Diversa invece la strategia cinese che, a proposito di dazi, utilizza operazioni chirurgiche, mirate a colpire esattamente l’elettorato di Trump. Già nel 2018 Pechino aveva posto alte tariffe per colpire quella fascia di lavoratori che poteva risultare decisiva nella rielezione di Trump, ad esempio colpendo l’importazione di germogli di soia di Ohio e Iowa».

Per altro, la Cina sta presentando reclami al Wto, World Trade Organization, contestando il sovvertimento delle regole generali del commercio liberale. Già, i comunisti cinesi spiegano agli americani che così facendo sovvertono le norme del libero mercato.

Effetti per l’America

L’effetto boomerang per gli Stati Uniti potrebbe essere dietro l’angolo perché l’aggressività politica di Trump, non solo rischia di avere una scarsa efficacia nel riequilibrio della bilancia dei pagamenti americana, come molti economisti sostengono, ma rischia anche di rendere più oneroso il finanziamento degli squilibri finanziari Usa rendendo più difficile il riequilibrio della bilancia dei pagamenti. L’effetto, per l’America, potrebbe essere quello di entrare in una spirale recessiva dalla quale sarebbe difficile uscire. «È un quadro complicato.

Questi dazi non stanno facendo bene all’economia americana; non rafforzano la finanza; non creano lavoro; non incentivano le aziende a spostare negli States nuovi impianti per via dell’incertezza generale; disintegrano tutto quello che era stato fatto all’interno delle catene del valore specialmente nell’area dell’Usmca (ex Nafta); provocano un rincaro dei beni importati e questo contribuisce ad aumentare l’inflazione anche perché, a differenza di quanto era accaduto nel 2018, il dollaro si sta indebolendo (anche a causa di tutta questa incertezza), mentre sette anni fa l’apprezzamento del dollaro serviva a contenere l’impatto inflazionistico delle tariffe», spiega Lossani.

Secondo molti, l’arma dei dazi di Trump sarebbe una semplice minaccia coercitiva per ottenere obiettivi primariamente politici, visto che Trump dovrebbe ben sapere che la politica dei dazi non aiuta a ridurre il debito americano e non aiuta a sistemare le note storture della bilancia commerciale americana: «Se andiamo a vedere gli effetti della prima tornata dei dazi di Trump, nel 2018, scopriamo che, diversamente da quello che era stato annunciato più volte, le tariffe avevano prodotto un aumento del disavanzo commerciale complessivo.

Andando a leggere i dati si scopre che si era ridotto il debito commerciale con la Cina, ma era aumentato a dismisura il disavanzo con tutti i paesi cosiddetti sponda, cioè le nazioni che, non essendo gravate da tariffe erano state usate per triangolare il commercio con l’America», spiega il docente della Cattolica. Quindi, quello che presumibilmente accadrà è che, a meno di tariffe altissime ed erga omnes, nasceranno nuovi paesi sponda per proseguire con il naturale import-export delle merci da e per l’America, continuando a far lievitare il deficit americano.

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