Sarà per colpa della guerra in Ucraina, sarà per le tensioni nel governo sul “fondamentale” destino degli stabilimenti balneari, ma sono passati quasi inosservati i risultati di un’indagine che rivela come una parte importantissima dei risparmi degli italiani sia gravata da un sistema di costi tra i più alti al mondo. Tra commissioni di gestione, di sottoscrizione, di retrocessione, il settore dei fondi di investimento, dominato dalla banche, preleva miliardi dalle tasche dei risparmiatori penalizzando le performance.

Domani ha stimato che se al patrimonio gestito dai fondi in Italia, che ammonta a 1.236 miliardi di euro, fossero applicate le commissioni adottate negli Stati Uniti, gli investitori italiani potrebbero incassare 10,5 miliardi di euro in più. Se invece si applicassero le commissioni medie della Germania, il risparmio sarebbe di 4,4 miliardi.

Il calcolo è stato realizzato basandosi sui risultati di uno studio della società americana di analisi Morningstar: si chiama Global investor experience e viene pubblicato ogni due anni. Prende in esame tutti i costi applicati ai fondi di investimento e agli Etf (cioè fondi quotati che replicano passivamente un indice) di 26 paesi. In testa, con gli oneri più bassi, ci sono Australia, Paesi Bassi e Stati Uniti.

All’estremo opposto della graduatoria, con i costi più elevati, ci sono Italia e Taiwan. In pratica, su un fondo azionario collocato negli Stati Uniti le commissioni mediane (cioè al centro tra la massima e la minima) sono dello 0,63 per cento mentre su un prodotto domiciliato in Italia sono più di tre volte tanto, il 2,13 per cento.

Sui prodotti bilanciati negli Usa i costi pesano per lo 0,58 per cento mentre in Italia salgono all’1,58 per cento. E infine sugli obbligazionari la fee americana è dello 0,43 per cento e in Italia dell’1,17 per cento. In Germania, che si trova a metà della classifica Morningstar, le commissioni medie sono più basse rispetto all’Italia in particolare sugli azionari (1,46 per cento) e sugli obbligazionari (0,73 per cento) mentre sono allineate alle nostre sui bilanciati.

Una «tassa» da 15,7 miliardi

Applicando i costi mediani indicati da Morningstar sul patrimonio dei fondi italiani si scopre che i risparmiatori verserebbero a banche e società di gestione 7,8 miliardi di commissioni sugli azionari, 2,6 miliardi sui bilanciati e 5,3 miliardi sugli obbligazionari per un totale di 15,7 miliardi. Si tratta di una stima un po’ rozza, ma indicativa delle dimensioni in gioco.

Se abitassero negli Stati Uniti, invece, i nostri investitori pagherebbero in tutto appena 5,2 miliardi. A che cosa è dovuta questa grande differenza? «Nei paesi dove la distribuzione è dominata dalle banche, non ci sono segnali che le forze del mercato da sole riescano a ridurre le spese per gli investitori retail», spiega Grant Kennaway, autore dell’indagine. «Nei mercati dove gli investitori hanno accesso a più canali distributivi, l’attenzione a minimizzare le spese è maggiore». E mentre nel resto del mondo le commissioni continuano a scendere, in Italia sono rimaste vicino ai livelli del 2019.

Secondo Sara Silano, caporedattore di Morningstar, il mercato italiano dei fondi è il più caro al mondo per tre ragioni: il sistema distributivo imperniato sulle banche è meno competitivo; non ci sono Etf domiciliati nel nostro paese, che sarebbero molto economici; ad alzare la media delle commissioni contribuisce poi la presenza di molti fondi “a finestra”, cioè con orizzonti temporali definiti, che presentano una struttura di costi molto elevati.

Al contrario, all’estero sono molto diffuse le clean share class (classi di fondi senza commissioni di distribuzione) che sono invece difficilmente accessibili ai risparmiatori italiani, al massimo si possono trovare nelle piattaforme dei robo-advisor. «Australia, Paesi Bassi e Stati Uniti hanno in comune spese correnti “unbundled”, ossia non comprensive di commissioni di ingresso, vendita o distribuzione» spiega Silano.

«Inoltre, in mercati grandi come quello statunitense o australiano, la competizione e le economie di scala hanno spinto al ribasso i costi. Per quanto riguarda l’Olanda, la regolamentazione ha avuto un ruolo fondamentale nel migliorare l’esperienza degli investitori in fondi, dal momento che ha vietato le fee di retrocessione». 

Di che cosa si tratta? Il collocatore, cioè la banca o la rete di consulenti, beneficia della retrocessione di parte della commissione di gestione dalla società prodotto. E in Italia queste commissioni sono onnipresenti. «Mentre all’estero lo sono molto di meno» sottolinea Massimo Scolari, presidente di Ascofind, associazione che rappresenta le società indipendenti di consulenti finanziari.

«Per abbattere i costi della rete bisognerebbe informare meglio i risparmiatori, permettendogli di confrontare i prodotti e verificare chi impone commissione più alte. E poi c’è da dire che nelle banche italiane non c’è una grande cultura della gestione, i loro manager non hanno mai spinto verso prodotti aggressivi ma hanno puntato di più sugli obbligazionari, possibilmente realizzati in casa».

Una tesi condivisa da Carlo Gentili, amministratore della società di investimenti Nextam Partners: «Le banche italiane non hanno un forte know how nella gestione, sviluppano prodotti conservativi, orientati all’obbligazionario e pensano solo a massimizzare le entrate».

In altre parole le banche sarebbero disinteressate a creare strutture di qualità nel risparmio gestito e interessate al contrario al mantenimento della redditività, comprimendo i costi della gestione e facendo salire, vertiginosamente e ingiustificatamente, quelli della distribuzione. «È questo che spinge le fees verso l'alto» dice Gentili: «Il non essere riuscite a dominare un processo commerciale razionale, barattando la qualità con le masse».

Performance dimezzate

Il risultato? Performance modeste rispetto ai mercati più evoluti. Lo conferma ormai da anni il rapporto del centro studi di Tosetti Value che prende in considerazione i rendimenti e i costi dei fondi gestiti dalle maggiori società presenti con i propri prodotti in Europa. L’indagine rivela che nel 2021 i fondi collocati dalle prime 30 società di gestione operanti nel continente, capitanate dall’americana Black Rock, hanno reso mediamente il 12,7 per cento mentre quelli venduti dalle prime 10 società italiane hanno messo a segno una performance del 6,4 per cento. Un esito deludente dovuto alla minore presenza nei portafogli italiani di azioni a vantaggio delle obbligazioni. Tanto è vero che nei primi tre mesi del 2022, disastrosi per le borse, i prodotti tricolore si sono difesi meglio di quelli internazionali.

Ma già a medio termine il confronto con le case estere è impietoso. Lo studio di Tosetti Value mostra cosa sono diventati 100 euro investiti nel 2018: se fossero stati affidati ai fondi della Black Rock si sarebbero trasformati dopo quattro anni e tre mesi in 130 euro. Se fossero stati investiti nei prodotti a basso costo della Vanguard ora varrebbero 133 euro. Invece gli stessi 100 euro dati a Intesa San Paolo sono cresciuti di appena 6,7 euro, alle Generali di 6,5 euro, ad Anima di 5,5 euro, a Mediolanum di 9,8 euro, ad Arca di 1,9 euro, ad Euromobiliare soltanto di 30 centesimi. Tra le dieci maggiori società di gestione italiane spicca Fineco che ha fatto guadagnare in media 10,2 euro ai suoi clienti, sempre molto meno comunque di quanto garantito dai gruppi internazionali.

Colpa non tanto dei gestori quanto delle commissioni: quelle cumulate dal gennaio 2018 al marzo 2022 pesano in media solo del 3 per cento sui prodotti Black Rock e invece incidono per il 5 per cento sui fondi italiani con una punta del 10,35 per cento su quelli targati Azimut. A queste condizioni riuscire a portare a casa un buon guadagno per i risparmiatori italiani è quasi impossibile.

L’unica strada da seguire sarebbe quella di iniettare più concorrenza e trasparenza nel sistema, dividendo nettamente le commissioni di gestione da quelle riservate al consulente e alla rete di distribuzione. I risparmiatori italiani pagano insomma l’ennesima tassa della non-concorrenza di questo paese. Ma la politica ha la volontà di mettersi contro le banche per modernizzare l’industria del risparmio? Già fa fatica a difendere i turisti e i contribuenti dalla lobby dei balneari...

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