Nel momento in cui compriamo una mela in un qualsiasi supermercato, sappiamo per certo che acquisteremo un prodotto le cui caratteristiche estetiche sono standardizzate. La forma, il colore della buccia, la sua lucentezza, le dimensioni. Tutto identico.

Quando torneremo a fare la spesa, se avremo apprezzato quella mela vorremo acquistarla di nuovo. Esattamente quella, nella sua confezione e con il suo bollino appiccicato. Nessun’altra. Come se fosse un pacco di biscotti, un qualsiasi prodotto confezionato. Quell’acquisto dovrà restituirci le medesime sensazioni della volta precedente.

Quella che acquistiamo non è quindi semplice frutta, ma un prodotto selezionato geneticamente, coltivato, raccolto, passato al vaglio di macchine calibratrici e, infine, venduto in tutta la sua perfezione per darci il conforto di trovare ogni volta quella forma, quel colore e quelle dimensioni che per noi rappresentano “la” mela.

Quando il bello è brutto

La natura però non è sempre perfetta, non è una catena di montaggio. Per quanto si provi a standardizzarla, a serializzarla, una parte della produzione sfuggirà sempre al nostro tentativo di piegarla alle leggi del marketing. Un albero di mele, o di qualsiasi altro frutto, per quanto possa essere messo al riparo da reti protettive, resta comunque a contatto con l’ambiente circostante, ne è influenzato.

Se piove troppo o troppo poco, se grandina, se arriva una gelata mentre la pianta è in fiore o fa un caldo torrido per settimane, quella mela progettata per essere perfetta subirà delle variazioni. Avrà una macchia sulla buccia, una colorazione non esattamente omogenea, magari con una piccola ammaccatura. Ancora buona ma non perfetta.

Viaggio a est

Tutta la frutta considerata esteticamente inferiore – definita di “seconda categoria” – non trova spazio tra le file dei supermercati e viene invece venduta in mercati considerati più poveri, come i paesi dell’est Europa, o finisce alle industrie di trasformazione per farne succhi, omogeneizzati, marmellate. Con una differenza sostanziale: il prezzo. Perché i frutti di prima categoria, quelli belli, lucidi e grandi, verranno venduti a un certo valore, gli altri a dieci volte meno. Poi ci sono quelli ancora più sfortunati, ammaccati, piccoli.

Che diventano direttamente scarto. Il risultato è che buona parte della frutta, seppure perfettamente commestibile e di qualità, non arriva sul mercato del fresco. Quella che vediamo sui banchi è solo quella che ha superato la rigida selezione all’ingresso. Perché ogni singolo prodotto, l’organizzazione degli scaffali, la divisione spaziale degli ambienti, all’interno di un supermercato nulla è lasciato al caso. Tutto risponde a precise regole di marketing che hanno l’obiettivo di spingere gli avventori – ognuno di noi – ad acquistare il più possibile.

Le forme, il colore, il packaging, tutto deve sottostare a delle precise regole studiate a tavolino per rispondere a varie tipologie di acquirenti, dal cliente più affezionato a quello sporadico, da quello che ha un grande potere d’acquisto a chi, al contrario, deve stare attento al singolo centesimo.

Il primo reparto

Non è un caso dunque se la prima cosa che troviamo all’ingresso di un negozio è il reparto del fresco, dove vengono vendute frutta e verdura. Anche se in apparenza è una scelta poco sensata – ogni volta che andiamo alla cassa speriamo che frutta e verdura non siano rimaste schiacciate dal peso di prodotti confezionati e delle bottiglie – il prodotto fresco all’ingresso è il biglietto da visita, quello che deve trasmettere la sensazione di freschezza, di naturalità che altri prodotti, in quella stessa posizione, non riuscirebbero a dare. Il settore agricolo, negli anni, ha dovuto piegarsi a questa logica, trasformandosi profondamente.

Basta girare per le campagne della penisola per accorgersi di quanto profonda sia questa metamorfosi. È sufficiente inoltrarsi nell’Agro Pontino e osservare i campi di kiwi, oltrepassare lo stretto di Messina e visitare gli aranceti siciliani, o, ancora, le campagne emiliane che producono molta della frutta nazionale. Accanto alle aziende agricole, prospicienti ai filari di alberi e piante, troverete enormi magazzini, dove gli addetti al calibro inseriscono il frutto in macchinari fatti da grandi cilindri dalla struttura reticolare, attraverso cui scorrono i prodotti e dove quelli più piccoli vengono scartati.

Oppure, nelle aziende più specializzate, ci saranno calibratrici elettroniche di ultimissima generazione, basate su sistemi ottici ad alta tecnologia, che fanno ruotare il frutto sotto un fascio luminoso che ne rileva i difetti, selezionando solo quelli che hanno un determinato colore, peso, forma e aspetto estetico. E che avranno la fortuna di essere esposti nel reparto del fresco del supermercato.

La Gdo non molla

Durante il lavoro di ricerca per realizzare il report “Siamo alla frutta – perché il cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura” dell’associazione Terra!, abbiamo chiesto alle principali catene della Grande distribuzione organizzata (Gdo) se per ridurre le perdite alimentari sarebbero state disponibili a vendere frutta esteticamente imperfetta. Buona ma imperfetta. Ci siamo chiesti come fosse possibile convivere con questa ossessione per l’estetica mentre la crisi climatica imperversa sulla produzione agricola. Volevamo capire il perché di queste scelte di mercato. La risposta della Gdo, nella quasi totalità dei casi, è stata un secco “no”.

Anzi, ci hanno tenuto a precisare che la responsabilità non è loro, ma è del consumatore che “non la comprerebbe mai”. Effettivamente, quanti frequentatori abituali della Gdo acquisterebbero frutta imperfetta? Sicuramente in pochi. Se la domanda viene posta così, la risposta è inequivocabile. Forse allora l’interrogativo corretto dovrebbe essere: chi ha indotto il consumatore a prediligere l’estetica al posto della qualità? Come ci ha raccontato uno storico produttore di pere, «prima della diffusione così massiccia dei supermercati, c’era meno attenzione alla forma e più alla sostanza».

Poi la forma è diventata sostanza e anche se spesso, assaggiando la frutta e la verdura del supermercato, ci troviamo a pensare “non sa di niente”, quel criterio estetico ha preso il sopravvento. Mentre la Gdo scarica la responsabilità sulle spalle dei consumatori – cioè sulle nostre spalle – non sembra invece disposta ad ammettere la più limpida verità: i supermercati, in questi anni, ci hanno indotto al consumo di questo o quel prodotto, spingendo su determinati criteri – tra cui l’estetica – o tendenze di mercato. Lo hanno fatto senza tener conto di quanto oggi la produzione agricola sia messa a dura prova da eventi climatici estremi che ogni giorno rovinano interi raccolti, da nord a sud Italia. E quando, come in questo caso, gli si fa notare la loro responsabilità, si affrettano a dire che è tutta colpa del consumatore.

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