Se ne vanno, appendono il camice al chiodo, cambiano lavoro o paese. Non è precisamente un rompere le righe, quello degli infermieri durante la quarta ondata pandemica, quanto piuttosto un lento e capillare darsela a gambe.

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Stress, contagi e ancor di più il timore di essere contagiati, sindrome di burnout sono tra le cause dell’abbandono. Sono migliaia gli infermieri che in questi mesi, alla spicciolata, hanno presentato le loro dimissioni secondo le segnalazioni arrivate alla Federazione degli ordini professionali.

In fuga soprattutto dagli ospedali e dal servizio sanitario pubblico. E agli italiani ora si aggiungono anche gli infermieri di origine straniera, polacchi, albanesi, ungheresi e anche latinoamericani che hanno deciso di tornare nelle rispettive terre d’origine.

«Al di là del percorso migratorio che per molti con i figli ormai grandi e sistemati prevede il ritorno, c’è anche una questione di paga», spiega Carlos, infermiere arrivato a Roma oltre trent’anni fa dal Perù che lavora al Campus Biomedico.

Due anni per un titolo 

Carlos non è emigrato in Italia per i soldi. La sua è stata una vita avventurosa o più che altro segnata da una notte avventurosa: rapito da un “uomo con un sombrero” dal centro medico di un villaggio sulle Ande e portato nel covo dei guerriglieri di Sendero Luminoso per aiutare una partoriente. «All’epoca bastava poco per essere bollato come terrorista e visto che ancora si poteva andare a cercare lavoro tranquillamente in altri paesi, seguendo il consiglio e l’invito di un amico presi un volo per l’Italia».

La trafila burocratica per vedersi riconosciuto il titolo professionale durò all’incirca due anni e Carlos, ricostruendone i passaggi, dice che niente è cambiato da allora.

Con una differenza non da poco, però: «Nei primi anni Novanta lo stipendio che percepivo qui in Italia valeva circa cinque o sei volte quello che prendevo in Perù. Adesso non è più così, considerando il costo della vita molto più basso laggiù, guadagno quanto i colleghi che sono rimasti».

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Sono circa 5 mila gli infermieri sudamericani su 35 mila infermieri stranieri che vivono e lavorano in Italia, ma i sudamericani al contrario di polacchi, rumeni e altri che vengono dall’Est, hanno formazioni tra le più alte, perché nei paesi d’origine sono formati per svolgere compiti paramedici complessi soprattutto nelle regioni rurali più sperdute dove i medici scarseggiano ancora di più, quindi spesso hanno un master di secondo livello e certificazioni riconosciute anche in Nord America.

Ma anche dopo essere riusciti ad ottenere l’equipollenza del diploma attraverso una complessa procedura e un grande impegno, facendo atletiche gimcane tra l'ambasciata italiana nel luogo d’origine, griglie valutative, albi professionali e ministeri vari, non riescono quasi mai ad essere assunti nelle strutture sanitarie pubbliche.

Il primo intoppo kafkiano è rappresentato dal permesso di soggiorno e dalle sue regole paradossali date dalla legge Bossi-Fini.

Mentre istruisci tutte le carte bollate e i nulla osta tra una sponda e l’altra dell’Atlantico per il riconoscimento del titolo professionale non avendo ancora il certificato equipollente, che si ottiene alla fine con un esame di lingua e legislazione italiana, non puoi svolgere il tuo lavoro, e senza un certificato di lavoro non hai neanche diritto al permesso di soggiorno. Un cane che si morde la coda.

Accesso negato

Alla fine arriva il muro invalicabile del castello, l’inaccessibilità del concorso pubblico in base al requisito mancante della cittadinanza italiana. In realtà una norma del 2001 (l’articolo 38 comma 3 bis del decreto legislativo 165 di quell’anno) permette l’accesso alle selezioni per posti pubblici, ad eccezione che nei corpi di polizia, anche ai soggiornanti di lungo periodo e ai rifugiati. Ma le regioni tendono a mantenere i requisiti standard vecchi di cinquant’anni.

Così gli infermieri stranieri non saranno tra i 48 mila precari che verranno assunti di qui a qualche mese per il perdurare dell’emergenza Covid. E di certo non andranno ad alleggerire la sanità pubblica rimasta impantanata.

Non potranno concorrere a riempire i vuoti d’organico che si stanno creando negli ospedali o partecipare all’apertura delle nuove case della salute – i centri medici per degenze e prestazioni ambulatoriali e extra ospedaliere che dovrebbero sorgere in tutta Italia e porre argine all’intasamento dei pronto soccorso e ai vergognosi ritardi nelle liste d’attesa per la medicina specialistica.

6,2 ogni mille

Non è una prospettiva rosea se si considera che l’Italia è tra i paesi europei che ha più “fame” di infermieri –  ce ne sono solo 6,2 ogni mille abitanti, siamo già sotto del 25 per cento alla media europea – e che a volte i concorsi vanno deserti, nessuno si presenta. In prospettiva si rischia un tracollo. Anzi “una Caporetto”, come dice chi ancora usa metafore belliche.

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 22 Aprile 2021 Roma (Italia) Il Covid Hospital di San Giuseppe di Albano

Nel 2026 quando il Pnrr sarà passato e i fondi per il Servizio sanitario nazionale si ridurranno di nuovo, a causa dei pensionamenti mancheranno dai 70 ai 100 mila infermieri in corsia e nei servizi territoriali –  secondo i dati della Federazione delle aziende ospedaliere.

E c’è da considerare anche che gli iscritti alle scuole universitarie per infermieri sono in calo dal 2014 e iniziano a scarseggiare anche i docenti – guadagnano solo 600 euro in più dei colleghi in reparto, poco più di 2 mila euro in tutto e hanno uno status poco definito tra università e Asl.

Oltre ai due miliardi di euro che il ministro della Salute Speranza ha inserito nel Pnrr per la formazione del personale sanitario servirebbe dunque un riordino complessivo. Per evitare di passare di emergenza in emergenza e alla fine sopperire alle lacune, come al solito, affidando i servizi ai privati.

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