I dati sull’andamento della povertà in Italia nel 2020, diffusi il 16 giugno dall’Istat,  sembrano delineare, agli occhi dei non esperti, un quadro contraddittorio e di difficile interpretazione. L’Istat rileva, infatti, che, fra il 2019 e il 2020, la quota di famiglie in povertà assoluta è aumentata in misura considerevole – dal 6,4 al 7,7 per cento – mentre quella in povertà relativa si è significativamente ridotta – dall’11,4 al 10,1 per cento.

Chi non conoscesse in dettaglio le metodologie di calcolo della povertà, e i pregi e difetti dei diversi indicatori proposti nel report dell’Istat, resterebbe facilmente disorientato e forse vorrebbe una risposta semplice alla semplice domanda: ma che è successo alla Povertà (con la p maiuscola)? Peraltro, si potrebbe facilmente finire per fare riferimento al dato maggiormente in linea con le proprie convinzioni su livello e tendenza della povertà e sull’efficacia delle misure adottate dal governo per fronteggiare la pandemia.

Alla semplice domanda di cui sopra la risposta, altrettanto semplice, è che la nozione di povertà, come abbiamo già sostenuto su Domani, non è univoca.  Occorre quindi misurarsi col significato dei diversi indicatori e anche, nello specifico, comprendere quanto ci si debba preoccupare del dato peggiore, e cioè dell’aggravarsi della povertà assoluta.

Studiare la povertà richiede di stabilire il criterio per identificare i poveri, ovvero fissare una soglia che separi coloro che lo sono da coloro che non lo sono. Su questo non esiste una visione unanime. La soglia può essere fissata sulla base di un criterio “assoluto” - cioè valutando il costo di un paniere di beni considerati “necessari” - o di un criterio “relativo”, cioè ancorando la soglia al tenore di vita “tipico” di una popolazione (ad esempio, al 60 per cento del reddito mediano, come nell’indicatore europeo di at risk of poverty). Inoltre, occorre scegliere la dimensione monetaria che meglio rappresenta il tenore di vita di una famiglia; solitamente l’alternativa è tra reddito e spesa per consumi.

L’Istat si riferisce alla spesa per consumi e, basandosi su di essa, calcola sia il numero dei poveri assoluti (coloro che spendono meno di quanto occorre per acquistare il paniere “necessario”) sia quello dei poveri relativi (la soglia è basata sul consumo medio). Le istituzioni europee fanno, invece, riferimento ai redditi. Dovrebbe essere ora possibile sciogliere l’apparente contraddizione di cui si è detto.

La povertà e la spesa

In una fase di recessione la spesa media per consumo si abbassa e, quindi, si abbassa anche la soglia della povertà relativa. Di conseguenza, possono uscire dalla povertà anche persone che vedono ridurre il proprio potere d’acquisto e il numero dei poveri può ridursi. Si spiega così perché la povertà relativa, in modo apparentemente paradossale, abbia solitamente un andamento anti-ciclico: aumenta quando il reddito nazionale cresce, se l’aumento non è relativamente pro poor, e può non aumentare o addirittura ridursi in fasi di forte recessione. Ciò avviene soprattutto  se, come sembra sia accaduto in Italia in questa crisi, il calo forte e generalizzato del potere d’acquisto è stato relativamente minore per i meno abbienti, grazie anche al beneficio relativamente maggiore assicurato loro dalle misure emergenziali messe in campo dal Governo. Un esempio clamoroso di questa ‘perversa’ caratteristica della povertà relativa lo offre la Grecia: dal 2012 al 2019 la sua incidenza  – misurata con i criteri europei - è scesa dal 23 al 18 per cento, a causa della caduta del reddito mediano greco, ma sarebbe cresciuta al di sopra del 40 per cento se la soglia della povertà fosse rimasta ferma al valore che aveva prima della crisi del 2009.

Quanto alla povertà assoluta, il problema non nasce dalla ‘mobilità’ della soglia ma dal fatto che, essendo riferita esclusivamente alla spesa per consumi, essa risente anche di riduzioni della spesa che non derivano da perdite di reddito e di  potere d’acquisto. E il caso della pandemia è sicuramente rilevante da questo punto di vista. Come hanno illustrato Aprea e Raitano sul Menabò di Etica ed Economia, è fondato il sospetto che la forte crescita della povertà assoluta rilevata dall’Istat non scaturisca soltanto dal peggioramento del tenore di vita. In periodi ordinari i cali di spesa sono un chiaro segnale di riduzione del tenore di vita delle famiglie.

Periodi straordinari

In periodi straordinari, come quello pandemico, una riduzione della spesa può invece dipendere anche dai divieti imposti a specifiche attività di consumo (si pensi alle spese per mobilità, alberghi o ristoranti), dal timore di effettuare consumi che potrebbero esporre a rischi di contagio o dalla scelta di aumentare il risparmio precauzionale data l’incertezza che permane sulle prospettive economiche personali e generali. Di tutto ciò si dovrebbe tenere conto nell’analisi dei dati relativi al 2020 per cogliere con precisione la dinamica del benessere economico delle famiglie, evitando di attribuire la riduzione delle spese per consumi interamente alla perdita di potere d’acquisto. Sarebbe pertanto utile leggere l’indicatore di povertà assoluta in combinazione con altri dati, riguardanti ad esempio la tipologia di consumi che si sono maggiormente ridotti.

In conclusione, non possiamo sentirci sollevati di fronte al dato in miglioramento sulla povertà relativa e forse possiamo non aggravare troppo la nostra preesistente preoccupazione di fronte a quello in peggioramento sulla povertà assoluta. La consapevolezza dei limiti dei diversi indicatori – di per sé utili se appropriatamente valutati – induce a cautela e invita ad accettare l’idea che un unico indicatore non rappresenta compiutamente fenomeni complessi come la povertà e la disuguaglianza. Accettare quell’idea sarebbe, probabilmente, di beneficio anche per la qualità del dibattito pubblico.

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