Periodicamente si riaccende la discussione sulla distribuzione territoriale delle risorse del bilancio pubblico. Da Nord si sottolinea come nelle regioni settentrionali la differenza tra spesa pubblica erogata e gettito di imposte e contributi (il cosiddetto residuo fiscale) sia negativa, al contrario di quanto avviene nelle regioni meridionali, concludendo che i residenti del Nord trasferiscono un ammontare ingente di risorse a favore di quelli del Sud (stimato a seconda dei metodi di calcolo tra 40 e 70 miliardi l’anno).

Da Sud si ribatte che la spesa pubblica pro capite è più bassa nelle Regioni meridionali a indicare la mancata garanzia di diritti costituzionali; le stime dell’ammontare di risorse sottratto al Sud rispetto a una situazione teorica di spesa uniforme in tutto il Paese variano tra 25 e 60 miliardi.
 

Il grande equivoco

È possibile una discussione costruttiva tra rappresentazioni così contrastanti? Il punto di partenza è riconoscere che entrambi i fenomeni (residui fiscali e differenze della spesa pro capite) sono in buona parte il frutto di politiche nazionali che non hanno alcuna finalità redistributiva tra aree geografiche.

Ad esempio, il finanziamento della spesa sanitaria corrente è fissato dallo Stato e ripartito tra le regioni sulla base della popolazione pesata per l’età: gli anziani utilizzano di più i servizi sanitari. Analogamente la residenza dei beneficiari non gioca alcun ruolo nei criteri di distribuzione della spesa per pensioni, per l’istruzione, per programmi come difesa o giustizia gestiti dallo Stato centrale. Ovviamente quando si considera la spesa pro capite riferita all’intera popolazione delle diverse aree questa risulterà maggiore laddove, ad esempio, sono più presenti anziani (per la sanità e le pensioni) o giovani in età scolare (per l’istruzione).
Per i residui fiscali entrano in gioco le entrate. I residui fiscali per una regione sono semplicemente la somma dei residui fiscali degli individui che risiedono in quell’area.

Con un sistema tributario nel suo insieme approssimativamente proporzionale rispetto al reddito è ovvio che un’area con una maggiore presenza di individui con redditi alti si ritroverà con un residuo fiscale negativo e quella dove, al contrario, vivono più individui con redditi bassi un residuo positivo. Ciò, tuttavia, non è indicativo di trasferimenti dalla prima alla seconda area.

Gli individui con redditi alti che risiedono dell’area “povera” contribuiscono al finanziamento delle spese esattamente come i loro omologhi che vivono nell’area “ricca” e lo stesso vale per gli individui con redditi bassi.

Si potrebbe sostenere che i contribuenti dell’area ricca, nell’insieme, sono danneggiati perché se dovessero finanziare solo la spesa della loro area pagherebbero tutti meno tasse. In quel caso potrebbero pagarne ancora meno se convincessero i contribuenti con redditi elevati dell’area povera a trasferirsi da loro (e questi ultimi ne avrebbero ben donde).
C’è solo un modo per ridurre i residui fiscali calcolati a livello regionale: comprimere le politiche nazionali. In altre parole, ridefinire la ripartizione del prelievo tra livelli di governo e, contemporaneamente, ridurre gli standard delle prestazioni garantite a livello nazionale integrandoli con standard locali differenziati. Ciò naturalmente produrrebbe un trattamento disuguale di individui uguali sotto ogni aspetto tranne che per il luogo di residenza, violando il principio dell’equità orizzontale. Si può anche fare (e in Italia già avviene per le regioni a statuto speciale del Nord) ma è bene essere consapevoli delle implicazioni.

Quel 20 per cento che resta

Politiche nazionali prive di finalità redistributive territoriali costituiscono il fondamento di almeno l’80 per cento della spesa pubblica. L’attenzione di chi è interessato agli squilibri territoriali dovrebbe concentrarsi sulla parte restante: la spesa per investimenti e le spese decise a livello locale. Su queste voci il cahier de doléances meridionale è giustificato e si basa su evidenze come quelle del gap infrastrutturale e della spesa storica comunale in settori come gli asili nido.

Sono questioni che non sono state risolte da esercizi con finalità redistributive come il calcolo di fabbisogni standard ma richiedono politiche nazionali condivise che esplicitamente destinino risorse aggiuntive alla graduale correzione degli squilibri.

La correzione sui prezzi va limitata

Una postilla finale sugli esercizi di contabilità territoriale della spesa pubblica. Molti equivoci verrebbero meno se si chiarisse cosa si vuole misurare. Ciò riguarda in particolare due questioni: come attribuire alle singole aree spese per beni pubblici – di cui tutti usufruiscono in egual misura – come l’amministrazione generale dello Stato o la difesa e se occorre tener conto dei divari territoriali nel livello dei prezzi.

Se l’obiettivo dell’analisi è stimare i benefici in capo agli individui, le spese per beni pubblici vanno attribuite alle varie aree in proporzione alla popolazione; se invece si vuole misurare l’impatto in termini macroeconomici sull’economia locale tali spese vanno attribuite all’area nella quale sono localizzate le strutture.

L’esercizio di Banca d’Italia segue la prima strada mentre quello dei Conti pubblici territoriali la seconda; non a caso, il Lazio presenta un residuo fiscale fortemente negativo nel primo esercizio e positivo nel secondo.

La correzione per il potere d’acquisto può avere senso se si vuole misurare l’impatto macroeconomico, ma non se ci interessa il beneficio individuale. Il valore per i cittadini dei servizi erogati da un medico ospedaliero non aumenta se egli si trasferisce da Milano a Crotone.

La correzione è giustificata, invece, nel caso di spesa per trasferimenti monetari diretti come, ad esempio, il reddito di cittadinanza.

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