Prima la crisi finanziaria e quella dei debiti sovrani, poi la presidenza Trump, quindi la pandemia, infine Putin e la guerra in Ucraina, hanno tutti concorso a dare un colpo definitivo alla globalizzazione, nata con la prima crisi da petrolio, culminata con il crollo dell’Urss e l’ingresso della Cina nel Wto e che aveva imperato per oltre 30 anni. È così che siamo passati dall’ipotesi (mi scuso per gli anglicismi che qualche politico vorrebbe sanzionare) della slowbalization, ossia un semplice rallentamento, a quella di una vera deglobalizzazione, ossia la fine della globalizzazione e la ricomposizione delle relazioni internazionali attraverso una diversa allocazione delle filiere produttive.

Anche qui, con nuovi termini anglosassoni: reshoring a significare il ritorno in patria delle attività delocalizzate in altri paesi, oppure nearshoring se la ricollocazione delle attività avviene nei paesi vicini, o friendshoring se avviene presso paesi amici o alleati. Il mantra della globalizzazione era stata la ricerca della massima efficienza economica per abbattere i costi di produzione, andando a cercare i prodotti la dove si facevano a prezzi più bassi: da lì la bassa inflazione che ha caratterizzato gli anni della globalizzazione.

Oggi, invece, l’obiettivo si è spostato sulla sicurezza sia economica, ossia la certezza di disporre dei prodotti necessari, sia politica e militare, ossia la certezza di non favorire lo sviluppo di tecnologie aggressive da parte di sistemi politici avversari. Nasce da quest’ultima esigenza l’ipotesi del decoupling, ossia di netta separazione tecnologica, nei confronti dei paesi avversari e, in particolare, della Cina di cui gli Usa e il mondo occidentale temono la capacità di sopravvento. Un mondo nuovo si presenta ai nostri occhi e la parola che lo descrive è “frammentazione”: ossia un mondo diviso in blocchi regionali separati sia dal punto di vista politico che economico e tecnologico.

Il paradosso della sicurezza

Ma, paradossalmente, un tale mondo, nato dalla ricerca della sicurezza, sarebbe altamente insicuro perché la crescita economica si affievolirebbe, i paesi più poveri rimarrebbero emarginati, le migrazioni si farebbero più intense, l’inflazione sarebbe maggiore e le tensioni tra i paesi non sarebbero più contrastate dall’esistenza di stretti rapporti economici e culturali. Questa prospettiva non è affatto rassicurante e già alcune personalità stanno cercando di correggere questa impostazione. La ministra del Tesoro statunitense, Janet Yellen, ha negato che gli USA stiano perseguendo politiche per danneggiare la Cina ed ha proposto un “impegno costruttivo” per lo sviluppo reciproco nella sicurezza.

La Presidente dell’Unione Europea Ursula Von der Leyen, a sua volta, ha detto che con la Cina non ci dovrà essere decoupling, ma derisking, per quello che voglia dire questa espressione. In effetti, l’uscita dalla globalizzazione non è così semplice e non è così vantaggiosa. Occorre ripensare la globalizzazione, riflettendo sui suoi difetti ma puntando sui suoi vantaggi e sulle possibilità che un mondo più integrato possa ridurre la povertà e assicurare la pace.

Proprio di “ripensare la globalizzazione” si discuterà a Torino nell’ambito del Festival Internazionale di Economia, organizzato dall’editore Laterza, con la direzione scientifica del professore Tito Boeri, e che si svolgerà dall’1 al 4 giugno con la presenza di economisti, politologi, sociologi, storici, politici, giornalisti, scrittori e quanti ritengono di essere in grado di portare idee e soluzioni ai problemi che ci riguardano tutti da vicino. Sarà un evento per il pubblico tutto e non per specialisti di economia, perché la vera economia non sta nei testi accademici, ma nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

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