«Non ce la facciamo più, adesso vogliono imporci anche i festivi obbligatori, e chi si rifiuta ha il terrore di perdere il posto», racconta un operaio che chiede l’anonimato perché dentro Amazon chi fa attività sindacale non è visto di buon occhio. Più l’Italia si tinge di rosso per la pandemia e più aumenta il lavoro dei corrieri per rispondere agli acquisti online, decisivi per i consumatori ma ormai fondamentali anche per le forniture alle piccole e medie imprese. La corsa dei pacchi diventa una linea incandescente, il lavoro frenetico, i ritmi parossistici. Tanto che lunedì i lavoratori di Amazon si fermano per il primo sciopero in Europa dell’intera filiera della multinazionale di Jeff Bezos: non solo gli addetti ai magazzini ma anche quelli che lavorano per le consegne con i corrieri.

Se i dipendenti Amazon dello stabilimento di Bessemer, in Alabama, hanno scioperato a febbraio per chiedere il riconoscimento del sindacato – ottenendo l’appoggio di Amnesty International e del presidente Joe Biden – quelli italiani invocano ritmi di lavoro più umani, ricordando persino come il cottimo sia stato abolito negli anni Settanta con norme –ora in parte aggirate – del codice civile. Non chiedono soldi ma umanizzazione del lavoro, dagli addetti all’inscatolamento degli oggetti a chi smista i pacchi, fino all’ultimo miglio del “driver” che corre con il furgone e parcheggia in doppia fila o è costretto a violare il codice della strada per consegnare in tempo.

Dentro i magazzini c’è un occhio elettronico che misura la “performance giornaliera”. Se poi ci si scambia qualche parola più dello stretto necessario con i colleghi al di là del muro di plexiglas della propria postazione, si viene redarguiti dal “manager” che monitora la produttività di ogni singolo magazziniere.

Il sistema e la blue card

Il sistema amazoniano è iper meritocratico, sul modello americano, e a Luca (nome di fantasia) all’inizio piaceva. A 23 anni si è trasferito dalla Calabria in un paesino vicino al grande hub di Passo Corese (in provincia di Rieti), dove si smistano le merci provenienti dall’aeroporto internazionale di Fiumicino. Era contento di quel lavoro lontano da casa ma contrattualizzato e abbastanza ben pagato, 1.350 euro netti al mese, si sentiva «valorizzato» dice così, «spronato a dare il meglio». Poi tutto è cambiato: «Anche io sono cambiato, ho iniziato a capire che quel modello trasportato qui in Italia diventava un’altra cosa, qualcosa di mostruoso, perché questo non è il paese delle opportunità, delle persone che si fanno da sé e vanno avanti. In Amazon se devi fare una rimostranza non sai con chi parlare, c’è un generale scaricabarile sul vertice imperscrutabile della multinazionale». Luca parla di ingiustizie e di arbitrii, di competizione malsana, di persone terrorizzate di risultare non aderenti al canone del lavoratore amazoniano. Di lavoratori e anche molte lavoratrici che pur di non rischiare di perdere il lavoro, nella speranza di ottenere una progressione di carriera o una “blue card”, cioè il tempo indeterminato, sono disposti a lavorare senza pause, a non andare in bagno, a sgomitare nella fila nella mensa e magari a prendersela con il barista se non fa abbastanza in fretta.

«Alla fine alcuni urlano, danno di matto. E comunque non c’è nessuno o quasi tra i 1.600 dipendenti dell’hub che resista per più di quattro o cinque anni. A Passo Corese si contano sulle dita delle mani quelli con anzianità, tutti quarantenni con figli che non si possono permettere di mollare. Se no, anche con la migliore buona volontà alla fine ti licenzi perché sei logorato. O ti ammali o te ne vai».

Una grande gara

A verificare il rispetto del “rate”, la quantità di pezzi da processare nell’unità di tempo assegnata, è ora l’intelligenza artificiale. Negli sterminati corridoi tra gli scaffali i carrelli sono stati soppiantati da robot e l’automazione risponde in parte ai volumi di lavoro quasi raddoppiati con la pandemia. Il clima è diventato sempre più competitivo, più alti i target che l’azienda fissa sul tabellone delle “candidature”, una sorta di classifica quotidiana delle prestazioni di ciascuno che segnala l’avvicinamento al punteggio per passare ai reparti più ambiti, come la gestione dei social o l’affiancamento dei neoassunti.

La vita interna dell’azienda è concepita come una gara. Quando i computer segnalano il calo di produttività di un reparto, scatta la power hour, uno sforzo eccezionale in cui è richiesta la massima concentrazione mentre dagli altoparlanti vengono diffusi incitamenti. Si vince una colazione al bar interno. Poi ci sono “i record”, giornate lavorative in cui tutto il sito produttivo è chiamato a battere sé stesso in produttività. «Si fa per recuperare l’arretrato accumulato durante i picchi di domanda», spiega Luca, «in pieno lockdown siamo riusciti a lavorare un milione e 600 mila pezzi in un solo giorno, una follia».

Il superlavoro dei magazzinieri negli hub e nelle delivery station di smistamento si ripercuote sui ritmi dei driver, i corrieri che devono consegnare i pacchi timbrati col codice a barre. Ciro, altro nome di fantasia, è di Napoli, ha 33 anni e da quattro lavora per una ditta di trasporto appaltatrice di Amazon. Anche lui nota che ormai «è sempre Natale, prima c’erano i picchi di lavoro, ora è sempre un picco e devi essere sempre più veloce». Spiega che se prima in una giornata ordinaria avevi circa settanta pacchi da consegnare, ora la media è da 290 a 310 al giorno. «Il massimo l’ha raggiunto un collega a Roma che due settimane fa in nove ore si è trovato a dover consegnare 472 pacchi».

Tre minuti a consegna

Il tempo standard sarebbe tre minuti a consegna chiamata “stop”, ma ultimamente, spiegano i driver, Amazon include in un unico “stop” tutte le consegne a uno stesso indirizzo o in una stessa strada, e così il volume delle consegne ufficialmente è rimasto lo stesso ma in realtà è aumentato anche del 30 per cento. «Nella mia ditta sono nel 10 per cento dei dipendenti a tempo indeterminato e così vado più piano», racconta Ciro, «ma nove volte su dieci quando cambio furgone trovo bottiglie di plastica piene di liquido giallo dei colleghi che per non dover chiedere aiuto a chiudere le consegne non si sono fermati neanche per andare in bagno». Come nel film di Ken Loach Sorry I missed you. «Ci stanno portando all’esasperazione: Amazon chiede di più e i proprietari delle ditte per paura di perdere l’appalto gli concedono tutto». Festivi pagati solo con un po’ di straordinario, multe fatte pagare ai guidatori. Un driver napoletano super stressato qualche mese fa si è fermato nel traffico natalizio, è sceso dal furgone e se n’è andato.

Il vecchio cottimo

I sindacati Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uil Trasporti per lo sciopero di oggi hanno formulato una piattaforma unitaria che tiene insieme le rivendicazioni di tutte le categorie della filiera logistica Amazon. «Si tratta di una contrattazione di secondo livello», spiega Danilo Morini della Filt, «che riguarda i turni, i carichi di lavoro, gli orari e le stabilizzazioni, incluso il mantenimento del posto di lavoro in caso di cambio della ditta d’appalto. C’è una induzione alla iper produttività che ricorda il vecchio cottimo».

I vertici di Amazon fanno notare di non essersi sottratti al confronto con i sindacati e, per quanto riguarda i driver, che Amazon Logistics «si avvale di fornitori terzi» che restano »i corretti interlocutori». AssoEspressi, l’associazione datoriale della logistica alla quale aderisce il 90 per cento delle ditte in appalto di Amazon, si dichiara «sorpresa» dalla brusca interruzione delle trattative e dall’indizione dello sciopero. I sindacati si sono detti disponibili a riprendere il negoziato, ma soltanto all’indomani della protesta.

La prima nel mondo che aggredisce le condizioni di lavoro lungo tutta la frantumata la filiera “dei pacchi”.

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