Emmanuel Macron ha fatto due telefonate prima di pronunciarsi ufficialmente, la sera del 16 agosto, sulla presa di potere dei talebani in Afghanistan. Una al premier brtiannico, Boris Johnson per concordare le iniziative da prendere al Consiglio di sicurezza dell’Onu per la lotta al terrorismo internazionale e una alla cancelliera tedesca Angela Merkel per stabilire i criteri con cui gestire la questione migratoria, di cui l’Europa non si può caricare tutto il peso, anche perché l’Afghanistan «ha bisogno delle sue forze vive».

La Francia arriva all’implosione della missione militare occidentale in Afghanistan in una posizione per nulla semplice. Il 15 agosto è stato reso pubblico un appello del comandante Ahmad Massoud, figlio dell’omonimo capo militare afghano assassinato da al Qaida il 9 settembre 2001, che ha definito la République la «nostra ultima speranza». In una lettera indirizzata all’amico di suo padre, il filosofo e giornalista Bernard-Henry Lévy ha chiesto ai francesi di non abbandonare gli afghani alla vendetta dei talebani.

Massoud non è certo il primo a rivolgersi alla Francia per riempire un vuoto, che nelle relazioni internazionali come nelle leggi della fisica viene rapidamente riempito. Prima di lui lo hanno fatto diversi leader della cosiddetta «Françafrique» e non tutti hanno ricevuto la riposta desiderata. Massoud però è figlio del comandante antisovietico simbolo della resistenza afghana contro i talebani, di cui la Francia è sempre stata interlocutore privilegiato.

La scommessa su Massoud

Per mettere fine all’occupazione russa dell’Afghanistan, gli Stati Uniti avevano scommesso sui Talebani, la Francia aveva puntato su Massoud. Comandante educato al liceo francese di Kabul, dopo la cacciata dei russi Massoud fu ministro della Difesa e poi capo del fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan impegnato nella successiva guerra civile proprio contro i talebani. Nell’aprile 2001 Nicole Fontaine, presidente francese del parlamento europeo, lo invitò a Strasburgo in qualità di «vicepresidente dello Stato islamico dell’Afghanistan».

L’occasione persa

Massoud aveva prima fatto tappa a Parigi e poi con gli eurodeputati aveva ribadito la pericolosità della minaccia talebana e di al Qaida. Bernard-Henry Lévy, pochi mesi fa, quando il comune di Parigi ha intitolato al comandante un viale nei pressi degli Champs Elysées, ha ricordato: «Come si spiega che dopo la nostra intervista apparsa su Le Monde, nessuno è sembrato assorbire l’informazione considerevole che aveva fornito (e che io avevo messo nero su bianco) sulla precisa posizione del Mullah Omar e di Osama bin Laden, a Kandahar?». Sappiamo come è finita quella storia.

La Francia ha contribuito alla guerra in Afghanistan. Sia sul fronte militare, sia con attività di formazione dei funzionari afghani, anche se gli analisti francesi rimpiangono che i loro consigli sull’assetto costituzionale non siano stati seguiti dal governo di Hamid Karzai. E oggi con l’avanzata dei talebani, pur mantenendo operativa l’ambasciata sul campo, con l’equipe trasferita all’aeroporto della capitale afghana, ha partecipato del fallimento collettivo.

Tuttavia la débâcle è imputata e imputabile soprattutto agli Stati Uniti e ha già portato fior di commentatori a mettere in dubbio la capacità di Washington di essere un alleato affidabile. Soprattutto in paesi come l’India, da cui l’amministrazione americana dopo anni di corteggiamento sembrava finalmente aver ottenuto più credito sul fronte strategico, proprio per le crescenti tensioni con il Pakistan, protettore dei talebani.

Per la Francia, da sempre membro critico dell’Alleanza atlantica e sola grande potenza militare dell’Unione europea post Brexit, può essere il momento per ribadire la necessità di una autonomia strategica europea, istanza che con Biden rischiava di tornare in sordina.

Gli anni del terrore in casa

Vent’anni dopo l’occasione mancata di sostenere Massoud, la Francia è il paese che combatte la guerra al terrore nel Sahel e soprattutto ha preso il posto degli Stati Uniti come primo obiettivo del terrorismo islamico in occidente e anche come centro di un dibattito pubblico anti islam.

Dalla notte tra il 13 e il 14 novembre 2015, quando i jihadisti, soprattutto belgi e francesi di cittadinanza, hanno provocato oltre 130 vittime a Parigi, la Francia ha subito più di 35 attacchi di matrice jihadista, spesso rivendicati dallo Stato islamico, anche se compiuti sempre più da singoli individui o minuscole cellule.

Secondo l’analisi di Francesco Marone, senior fellow dell’Ispi, solo nei primi undici mesi del 2020, prima del quinto anniversario della notte del Bataclan, e in piena emergenza pandemia, si sono registrati sette attacchi sul suolo francese e nelle settimane precedenti all’anniversario è stata attaccata due volte la rappresentanza diplomatica francese a Gedda, in Arabia Saudita.

Nel frattempo, il presidente Macron ha continuato a rinnovare le leggi speciali dello stato di emergenza, il suo governo ha approvato una controversa legge sulla sicurezza globale, e anche un disegno di legge contro il separatismo, che cambia i rapporti con l’islam francese e le altre religioni così come regolati dal 1905, terremotando anche le relazioni con il consiglio francese del culto musulmano.

La norma, approvata il 23 luglio dall’Assemblée nationale con i soli voti della maggioranza, tiene insieme una serie di misure molto diverse, tra cui la supervisione dell’istruzione in famiglia, maggiori controlli sulle associazioni religiose e i servizi di culto, cioè le moschee, compresi i loro finanziamenti, fino alla proibizione del velo nei luoghi pubblici.

Se repubblicani e socialisti hanno votato contro, la maggioranza centrista ha potuto contare sull’astensione del Rassemblement national di Marine Le Pen. Per fare una sintesi rozza, ma abbastanza efficace, si potrebbe dire che Macron sta vivendo il suo momento Bush.

«Terroristan»

Con questo anno alle spalle e le elezioni nel 2022, con l’ambizione mai nascosta di una autonomia dagli Stati Uniti, Macron affronta le ricadute internazionali della presa di Kabul. L’Afghanistan, dice, non può diventare «un santuario del terrorismo».

A febbraio 2019, in una intervista alla Tribune de Geneve, Chékéba Hachemi, altra esponente di quella élite afghana educata alla francese, prima diplomatica del suo paese, ambasciatrice presso l’Unione europea, avvertiva che l’Afghanistan sarebbe ritornato a essere «un santuario dei jihadisti»: assisteremo alla nascita del «Terroristan». Il futuro dirà se ha ragione. Otto anni fa intervistata da Paris Match, aveva profetizzato: «Mi chiedo solo in che salsa verranno mangiati gli afghani quando le truppe straniere se ne andranno».

 

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