Il primo passo lo ha fatto Eugenio Giani: il primo candidato Pd in bilico della storia della regione Toscana, arrivato in piazza del Campo a Siena il 27 giugno durante il suo tour elettorale, ha detto che il Monte dei Paschi deve restare in mano pubblica e diventare la «la banca della ricostruzione», come fu «la Comit nel dopoguerra».

Di nuovo forte della sua banca, Siena deve diventare «una delle capitali dell’Italia centrale». Giani si oppone così al ministero dell’Economia del suo stesso partito che sta preparando la vendita dell’istituto, a controllo pubblico dal 2017. Lo impone il piano di ristrutturazione concordato dal governo con la Commissione europea. Ma anche su quel che resta di Mps si combatte la campagna elettorale per le elezioni regionali in Toscana di domenica e lunedì. 

Il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani ha accusato il Pd di volere «il modello Venezuela». Il leader della Lega Matteo Salvini, in Toscana per sostenere la candidata Susanna Ceccardi, ha promesso: «A breve presenteremo un piano di rilancio della Lega». Intanto a Roma il decreto che fissava il ritorno sul mercato dell’istituto di credito, atteso ai primi di settembre, è stato rinviato, bloccato dal fronte sempre più numeroso di coloro che vogliono prorogare, rimandare, prendere tempo.

L'ex amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena, Marco Morelli, in una conferenza stampa del luglio 2017.

La presidente della commissione banche del M5s Carla Ruocco ha chiesto di «evitare la svendita» della banca e usarla per creare la sempre promessa bad bank nazionale (che si fa carico dei crediti deteriorati del sistema) e cedendone una parte all’altra banca salvata dallo stato dopo anni di malagestione, la Popolare di Bari, di proprietà del Mediocredito centrale, controllato al cento per cento da Invitalia. Il dibattito è «stravagante», come dice il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Che però, a sua volta, parla di «rilancio».

I numeri dell’istituto di credito indicano che la priorità non è chi comanda – il pubblico o il privato – ma se la banca riesce a stare in piedi. «Il problema è di natura aziendale, che succede ai lavoratori», dice l’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini.

A spese dei contribuenti

Da quando il governo, con i soldi dei contribuenti, è diventato il principale azionista della banca senese, Mps ha registrato quasi 5 miliardi di perdite (un miliardo solo a fine 2019 e 845 milioni l’ultimo rosso della semestrale presentata al 30 giugno), dopo un decennio di bilanci in rosso.

Chi ha comprato una azione di Mps il 23 dicembre 2016, il giorno del decreto salva banche, ha speso 15,08 euro e ora si ritrova in tasca un titolo che vale 1,42 euro, meno di un decimo. Gli obiettivi del piano di ristrutturazione che era stato approvato nell’estate del 2017 non sono stati raggiunti e il programma dovrà essere rivisto in autunno.

A fine giugno la Bce, responsabile della vigilanza sulle banche, ha approvato l’operazione di cessione di circa 8,1 miliardi di euro di sofferenze lorde, cioè i prestiti non restituiti, ad Amco, una società a sua volta controllata al cento per cento dal ministero dell’Economia, con l'obiettivo di ripulirne il bilancio. La relazione semestrale stimava di riportare il rapporto tra i crediti a rischio e il patrimonio tangibile delle banca (l’indicatore della solidità dell’istituto)  dall’85,6 di fine dicembre al 43 per cento. Al 30 giugno il livello è salito al 91,2.

Con i crediti deteriorati, la banca passa ad Amco, anche una dote buona assieme a quella cattiva. Mps dovrà emettere obbligazioni per raccogliere quasi un miliardo per rafforzare il suo  capitale e prima che l’operazione si concluda – a bilancio si parla degli ultimi due mesi del 2020 – l’impatto della crisi Covid sui conti sarà più chiaro.

La richiesta danni da 3,8 miliardi

All’elenco delle incognite vanno aggiunti anche i rischi legali per le richieste di risarcimento danni legate ai bilanci passati, truccati tramite derivati e operazioni finanziarie complesse per nascondere l’impatto negativo dell’acquisizione di Antonveneta nel 2007: le richieste arrivano quasi a cinque miliardi. Con le istituzioni locali che chiedono i danni a quelle nazionali.

La fondazione Mps dove siedono tra gli altri i rappresentanti di provincia, università, regione, comune, ha chiesto un risarcimento di 3,8 miliardi di euro per la partecipazione agli aumenti di capitale del periodo 2008 e 2011, a cui ha aderito basandosi su conti poi risultati falsati.

«Ho promosso la causa di risarcimento di danni nei confronti dell’attuale proprietà, cioè del ministero», dice il primo sindaco leghista della città, l’avvocato Luigi De Mossi. La fondazione non commenta la richiesta di risarcimento, ma De Mossi spiega la sua idea: usare i soldi per fare in modo che la Fondazione ricompri le azioni della banca e torni a contare dopo l’uscita del ministero: «Ci potrebbe essere già una trattativa, potrebbero effettuare un accordo».

«Avere una percentuale di azioni controllate dalla fondazione che non cerca il profitto è un elemento di stabilità», dice il primo cittadino di Siena.

I dipendenti

I sindacati hanno invece da poco preso posizione perché l’istituto rimanga in mano pubblica per tutelare i posti di lavoro: «Gli altri gruppi bancari non hanno il peso per farsi carico di Mps. Non abbiamo una stima di quanto potrebbe costare in termini di esuberi una fusione, ma ci opponiamo a qualsiasi esubero non gestito su base volontaria», dice Lando Sileoni, segretario generale della Federazione autonoma dei bancari, il sindacato principale del settore.

Mps conta 22 mila dipendenti e 1421 sportelli. Con questi numeri trovare un “partner strategico” è complicato, soprattutto mentre tutte le banche stanno cercando nuove formule di sostenibilità e nel mezzo di una crisi che gonfierà i bilanci di nuove sofferenze. Per questo più passa il tempo più la situazione rischia di aggravarsi.

L’acquisto di Ubi Banca da parte di Banca Intesa ha ridotto il numero degli istituti che prendersi Mps. Il primo candidato è il Banco Bpm, che però ha dimensioni tali da rendere più rischiosa una fusione a due.

Anche Unicredit potrebbe essere coinvolta, se fosse pronta a intervenire in Italia, ma non è questa la linea tenuta finora dall’amministratore delegato Jean Pierre Mustier. I due istituti condividono come azionista la fondazione Crt, presieduta dal  Fabrizio Palenzona, pronto a tornare protagonista. Un’alternativa potrebbe essere il coinvolgimento delle banche dei gruppi francesi Credit Agricole e Bnp Paribas, seppure difficile da gestire politicamente per le prevedibili polemiche sulla svendita allo straniero. 

Tutti problemi che in campagna elettorale è utile rimandare. 

© Riproduzione riservata