Nessun compromesso per salvare le pmi italiane, ma la possibilità di partecipare ad appalti negli Usa. Le ipotesi Fs e Fincantieri. La premier ha detto: «Gran parte della ricchezza delle nostre imprese non viene prodotta in Italia, ma nei paesi in cui si esporta»
Le trattative tra Washington e Bruxelles sono ben avviate e non hanno bisogno di essere oliate dalla visita di giovedì 17 aprile di Giorgia Meloni a Donald Trump. Dunque, quale sia l’obiettivo della premier è un rebus tutto da decifrare.
Inizialmente si era ipotizzato che la premier volesse strappare qualche concessione per sé, e per l’Italia soltanto, ad esempio uno sconto sui prodotti agroalimentari, dato che il solo dazio del 10 per cento sul vino italiano, che esporta due miliardi di euro, comporta una perdita annua di 160 milioni. E sull’intero agroalimentare, se dovessero scattare le tariffe al 20 per cento, si metterebbero a rischio 1,6 miliardi di euro di prodotti.
Ora, però, è più chiaro che difficilmente Meloni riuscirà a ottenere una via preferenziale per i formaggi, la pasta e l’olio d’oliva made in Italy, tanto più se la controparte chiederà di spalancare le porte a carni da animali allevati con ormoni e prodotti agricoli ogm, un pallino del presidente Trump.
Orsini cerca il sostegno Ue
L’altro pallino è l’aumento delle esportazioni di petrolio, gas liquefatto e armamenti dagli Usa verso Italia e Europa. Ma anche qui Meloni non può parlare per l’Europa e difficilmente potrà trattare solo per l’Italia. Che la premier abbia poco da contrattare lo ha capito anche il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini che, intervenuto alla settima edizione del Sustainable Economic Forum, ha parlato di un piano per aumentare la capacità di esportazione di ulteriori 80 miliardi di euro, virando su nuovi mercati. Quasi a voler dare per persa la partita Stati Uniti. Il numero uno di Via dell’Astronomia ha invitato l’Unione europea a «un’azione rapida per aprire nuovi sbocchi a fronte della chiusura di qualche mercato».
Insomma, se si chiude il fronte americano, che vale 67 miliardi di export, con in testa i macchinari industriali, la farmaceutica, l’agroalimentare, il lusso, bisogna darsi una mossa per cercare nuove rotte. Il realismo di Orsini, probabilmente, viene dall’intuizione che nell’incontro di domani Meloni metterà sul tavolo della Casa Bianca un’altra carta.
C’è chi ha ipotizzato che la premier voglia snocciolare al tycoon il lungo elenco di investimenti italiani già presenti in terra statunitense, da Eni a Leonardo, da Pirelli all’ultimo colpo di Aponte nella gestione dei porti e in particolare sul canale di Panama. Ma la direzione potrebbe essere un’altra.
Dossier investimenti
Intervenuta alla giornata della qualità italiana, a proposito di export e del caos dazi ha detto: «Quando un prodotto italiano viene esportato, la gran parte della ricchezza non la produce in Italia, ma la produce dove viene esportato. E anche noi, con questo lavoro legato all’export, produciamo ricchezza per gli altri». In attesa di sapere cosa ne pensano i tanti operai della manifattura italiana di tale affermazione, si delinea così la strategia meloniana in vista dell’incontro con Trump.
Palazzo Chigi, infatti, avrebbe preparato un dossier di potenziali investimenti infrastrutturali negli States. Il capitolo più caldo è quello di Ferrovie, su cui ha alacremente lavorato il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, il quale, nel colloquio con il vicepresidente americano JD Vance, avrebbe appunto avanzato la possibilità di ristrutturare la divisione americana di Fs International, sostanzialmente dormiente fino a qualche mese fa, per accelerare la conquista del mercato americano dell’alta velocità.
Non ci sarebbe solo spazio per Ferrovie, ma, a quanto risulta a Domani, sul piatto della compensazione potrebbe esserci spazio anche per Fincantieri, Enel, Eni, Snam e, in misura minore, Leonardo, con una dote di nuove commesse da circa 15 miliardi di euro. A fronte della ormai certa stangata dei dazi.
Fs, Fincantieri e gli altri
La partita meglio avviata è Fs, con il viceministro alle Infrastrutture, il leghista Edoardo Rixi, che nella visita lampo a Miami per l’inaugurazione del terminal di Msc, ha colto l’occasione per valutare l’apertura, proprio a Miami, lì dove c’è il potere politico di Mar-a-Lago, di una nuova sede di Fs International, mentre una seconda succursale sarà a Washington. L’obiettivo è intercettare, con il sostegno dell’amministrazione Trump, le ricche commesse per la realizzazione delle tratte dell’alta velocità fra New York e Washington, fra Houston e Dallas.
Da sciogliere il nodo della titolarità degli investimenti, che in teoria dovrebbero spettare ad aziende americane, ma non è detto che non ci possa essere spazio per Fs International che, alla peggio, potrebbe almeno sperare di ottenere la gestione del servizio ad alta velocità. Lo stesso amministratore delegato, Stefano Donnarumma, presentando a inizio anno la presentazione della newco Fs International, aveva parlato dell’intenzione di far crescere la società di treni all’estero, citando anche gli Stati Uniti come mercato di riferimento, anche attraverso Italferr, la società del gruppo che si occupa della tecnologia ferroviaria.
Per quanto riguarda Fincantieri, invece, il piano è potenziare la cantieristica italiana che ha già un piede negli States, rispondendo così al desiderio dell’amministrazione Trump di dimostrare di avere ancora voce in capitolo nell’industria manifatturiera, specialmente in un settore, come la costruzione di navi, dove la Cina e l’Asia ormai comandano.
Al momento Fincantieri ha avviato 1.500 assunzioni nei cantieri del Wisconsin, rispondendo alla crescente domanda di navi da guerra e fregate della Us Navy. Il gruppo può già contare su una solida presenza negli Usa, dove opera attraverso la controllata Fincantieri Marine Group.
Altro spazio potrebbe crearsi per Eni e l’estrazione di idrocarburi e Enel per la creazione di infrastrutture elettriche, mentre Leonardo potrebbe arricchire il proprio portafoglio ordini con nuovi elicotteri militari da realizzare nella sede di Leonardo Helicopters di Philadelphia.
Per il momento, invece, non ci sono buone notizie per un’altra partecipata pubblica, la Stm, società controllata dal ministero dell’economia italiano e da quello francese che potrebbe dire addio al 16 per cento del fatturato, a tanto ammonta il valore delle spedizioni verso gli Stati Uniti di semiconduttori sul volume d’affari, ovvero 2,1 miliardi di dollari su cui pagare dazio.
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